Nel 1998 le pregiate carni delle razze bovine Chianina, Marchigiana e Romagnola, sono state valorizzate con l’iscrizione nel registro UE delle IGP con il nome di Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP; il Consorzio di Tutela è stato riconosciuto ufficialmente nel 2004 e Stefano Mengoli lo guida come presidente fin dalla sua costituzione.
Quante cose sono cambiate in quasi 15 anni?
“Tutto, eccetto che il presidente – dice sorridendo Stefano Mengoli. A parte gli scherzi, in questi anni sono cambiate tante cose, perché è stato un periodo impegnativo per il settore delle carni bovine. Dal 1995 al 2008 sono stati anni terribili, a causa della BSE, l’encefalopatia spongiforme bovina (Bovine Spongiform Encephalopathy), una malattia neurologica cronica, degenerativa e irreversibile che colpisce i bovini ma che si trasmette all’uomo, che tutti ricordano con il nome di “mucca pazza”.
La BSE ha condizionato pesantemente il settore delle carni bovine
“Le problematiche legate alla “mucca pazza” hanno avuto effetti devastanti sul settore delle carni bovine in generale, anche se a fasi alterne, perché si è trattato di un lungo arco di tempo, che ha visto fasi più o meno acute, che hanno comunque inciso molto sui consumi. Ma per il settore delle carni certificate, quindi quelle che offrivano maggiori garanzie di tracciabilità e di sicurezza, c’è stato un riflesso positivo; le nostre produzioni non avevano meccanismi di industrializzazione, nei disciplinari era già proibito l’uso di farine di carne e nell’immaginario collettivo, rappresentavano la sola possibilità di mangiare carne sicura. La certificazione è stata determinante per la tranquillità del consumatore, per la remunerazione degli allevatori, per la salvaguardia di razze autoctone. E’ stata la sola carta vincente”.
Quindi c’è stato un interesse di riflesso verso carni certificate come il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP?
“C’è stato un deciso aumento di interesse, di domanda e di attenzione. Fino ad allora i grandi operatori della GDO e dei canali Ho.re.ca. per la ristorazione collettiva, ci avevano sempre snobbato. Con lo scandalo Bse tutte queste realtà si sono risvegliate insieme, dimostrando un improvviso interesse verso di noi. La vera sfida è stata far sì che la nostra produzione, polverizzata più di 3000 allevamenti, con una produzione complessiva di circa 20mila capi , ma con numero modesto di animali per stalla, circa 7-8 per allevamento, reggesse alle nuove richieste di mercato senza danneggiare i rapporti preesistenti con le altre filiere operative. Non potevamo interrompere i rapporti con i clienti abituali, ma era il momento maturo per provare nuovi canali di vendita.Per capire meglio, nel mondo la GDO parla di richieste con cifre in migliaia, in Italia a centinaia e noi potevamo solo rispondere offrendo cifre in unità, questa era la realtà. Quando ci siamo affacciati alla realtà della GDO è stato difficile essere in grado di vendere, perché mancavano i numeri. Negli ultimi anni abbiamo fatto un interessantissimo accordo con Mc Donald’s, che ci ha dato molta visibilità e soprattutto ci ha fatto conoscere a una clientela diversa, più giovane, ma siamo stati presenti nei ristoranti del fast food solo per periodi limitati, perché la nostra produzione è contenuta come numero di capi ”.
Quindi l’obiettivo principale del Consorzio è stato far crescere il numero di capi?
“Potenzialmente avremmo voluto, concretamente è difficile. La zootecnia pesante ha cicli lunghissimi – anche qui basta fare un esempio, se il ciclo del pollo è di 90 giorni, il ciclo del bovino è di 5 anni. E’ chiaro che si può crescere, ma con tempi giusti. Oltre tutto non ci sono neppure condizioni vere e proprie per una grande crescita nel nostro territorio di produzione. In Italia non ci sono grandi pascoli, ce ne sono sulle Alpi ma gli Appennini non ne hanno. In altri paesi come Germania, in Baviera, l’ Est Europa, la Romania, l’ Ungheria e la Francia, ci sono condizioni diverse, c’è pascolo diffuso. L’ Appennino è soprattutto terreno impervio o boschivo e la parte bassa è occupata da terreni agricoli utilizzati, non adatti a pascolamento diffuso. Ne consegue che le nostre aziende sono limitate orograficamente e storicamente, ci può essere uno sviluppo, ma è sicuramente limitato” .
Ma i numeri indicano che in questi ultimi anni i vostri capi sono comunque aumentati
“Dal 2000 sì, sono aumentati, ma di poco. Questo anche perché si è invertito il trend negativo di queste produzioni, ad esempio la razza Romagnola, fra le due guerre, aveva 500 mila capi, oggi ne ha 16 mila, il crollo è avvenuto fra primo dopo guerra fino ai primi anni ‘90. Con l’IGP il prodotto ha acquistato valore è diventato più remunerativo per gli allevatori, e questo ha frenato il declino inevitabile causato da chi riteneva che queste razze non fossero più competitive. Le razze nord europee sembravano le uniche che meritassero di essere allevate. Poi si è scoperto che la qualità organolettica del prodotto premiava le produzioni locali – più difficili da allevare – e che il consumatore voleva la qualità del prodotto; questo ha salvato la Romagnola dall’estinzione”.
Prossimi obiettivi del Consorzio?
“Far conoscere maggiormente il marchio, perché il nome delle razze è più conosciuto che non la denominazione vera e propria, ma nel 1998 la Ue non consentiva di registrare le razze come denominazioni. Noi siamo conosciuti come razze, Chianina, Romagnola, Marchigiana, ma registrati con un nome generico, Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP che comprende tutte “le bestie bianche”. Vogliamo far conoscere di più la registrazione. Solo recentemente la UE si è aperta al riconoscimento delle razze, è successo per la Cinta Senese DOP e per i Vitelloni Piemontesi della Coscia IGP , quando l’abbiamo richiesta noi non era possibile”.
Fonte: Fondazione Qualivita