Con la nuova legge è possibile dealcolare in Italia. Nelle Langhe molti contrari, ma altrove si guarda ai mercati esteri
La prima cosa da fare sarà assaggiarli, perché se c’è una cosa su cui concordano tutti – gli scettici, i curiosi, gli entusiasti – è che i vini dealcolati “sono una cosa diversa”, che con il vino avranno poco a che spartire. Però i gusti cambiano, il mercato pure e, con le disposizioni attuative pubblicate dal ministero dell’Agricoltura, anche il Piemonte si affaccia al mercato del vino integralmente o parzialmente alcol free.
Le novità: mentre fino a oggi le cantine – tra i pionieri c’è Bosca di Canelli – dovevano rivolgersi ad aziende alimentari o esportare vino all’estero per reimportarlo dealcolato, da oggi lo si potrà privare dell’alcol anche in azienda. E chiamarlo vino. Avviare un impianto costerà intorno ai 300 mila euro.
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Se la Langa dei grandi rossi resta al momento poco attratta, ad aprirsi è l’Astigiano. “Non ci spaventa. Siamo da sempre produttori di vini a basso grado alcolico: si prestano meglio a intercettare una tendenza che va seguita e coordinata”, dice Stefano Ricagno, presidente del Consorzio dell’Asti DOCG, che ha appena finito di conteggiare le bottiglie: oltre 90 milioni anche nel 2024, in linea con l’anno precedente.
A trainare è il Moscato d’Asti DOP, con 33 milioni di pezzi, in crescita doppia proprio grazie a States, Cina e Corea, mentre la Russia torna a +49 per cento.
Per Ricagno non c’è da aver paura. “Anzi, bisognerebbe aprire nuovi spazi di riflessione. Oggi fare un dealcolato da uve piemontesi è impossibile, perché sono tutte tutelate da DOC e DOCG”.
Il decreto apre infatti solo a bianchi e rossi generici, con il risultato che sarebbe controproducente, per i produttori piemontesi, declassare le uve DOC e DOCG deprezzandole in uve generiche. “In Francia però già si produce Cabernet zero e come piemontesi dovremmo capire se vogliamo veramente rimanere al di fuori di questa opportunità”.
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