Italia Oggi
Un marchio per il made in Italy agroalimentare, un marchio per fare sistema e per sperare che i veri prodotti italiani possano essere riconoscibili da quelli del cosiddetto italian sounding. Il marchio ombrello, sul modello di quanto da anni ha fatto la Francia, si legge tra le righe del decreto Sblocca Italia quando parla di «realizzazione di un segno distintivo unico per le produzioni agricole e agroalimentari al fine di favorirne la promozione all’estero e durante l’Esposizione Universale 2015». Poche parole che hanno acceso la discussione nel mondo agricolo. Mario Guidi, presidente di Confagricoltura sottolinea che, «per la prima volta si dichiara la voglia dell’Italia di internazionalizzazione dell’agroalimentare italiano.
Usciamo da una strategia difensiva per avviare una promozione a 360 gradi. Molto importante, nello Sblocca Italia, per esempio, la previsione di supporto per le piccole aziende attraverso figure come l’export manager». Di chiarezza e di informazione verso i consumatori parla anche Mauro Rosati, direttore generale di Qualivita. «In giro per il mondo si è assistito a un proliferare di attività che richiamano l’italianità. Tutto è made in Italy, non solo l’agroalimentare». Ecco la necessità di un riconoscimento. «Un marchio ombrello può facilitare a distinguere da ciò che non è italiano. Si tratta di promuovere un sistema di azione degli italiani che subiscono la concorrenza dell’italian sounding. Aiuterà gli italiani in un contesto sempre più competitivo». Ma accanto agli aspetti positivi, ci sono alcune perplessità. «I dubbi sono sulla fase applicativa. Dobbiamo capire quali prodotti promuoviamo, quali mettiamo sotto il marchio. Se quelli 100% produzioni italiane o anche quelli frutto dell’ingegno italico. E poi da domandarsi come sarà gestito il meccanismo di rilascio e chi farà i controlli». Dubbi sulla definizione dei prodotti che sono propri anche di Fedagri-Confcooperative. Il direttore Pierluigi Romiti mette in evidenza come «sia da chiarire che si intenda per Made in Italy. Finora si va da posizioni estremistiche in cui tutto deve essere prodotto in casa, anche i semi, a visioni più liberali. Certo occorre una visione ragionevole anche se non è accettabile che basti l’ultima trasformazione in Italia per essere considerato made in Italy». La questione riguarda l’uso delle materie prime. Molti brand sinonimo di agroalimentare italiano nel mondo, non fanno ricorso soltanto a prodotti coltivati in Italia. «Non possiamo pretendere il 100% italiano perché sarebbe irrealistico, diciamo no a posizioni oltranziste», continua Romiti. «Quello che è fondamentale è che il marchio made in Italy sappia creare reddito all’Italia e sappia creare le condizioni per una Italia che sa esportare ». Per conoscere di più sulla concretizzazione del marchio ci sarà anche da capire chi lo gestirà tra Mipaaf e Mise.