L’indagine della Fondazione Qualivita presso i Consorzi di tutela di tutta Italia riscontra oltre 200 Eventi incentrati sui prodotti ad Indicazione Geografica, 150 Itinerari e Strade attive, più di 600 Risorse Culturali intimamente legate al patrimonio alimentare e 17 Esperienze come nuove proposte di incontro interattivo con il mondo rurale. È il Turismo DOP, l’insieme di iniziative dedicate esclusivamente ai prodotti DOP IGP e promosse dai Consorzi ed enti di promozione di primaria importanza che raccontano di un legame forte dei territori con le produzioni tipiche di qualità e la capacità crescente di valorizzare questo elemento in chiave turistica (un fenomeno in crescita che sarà oggetto di riflessione in occasione della tavola rotonda “Turismo DOP” organizzata per venerdì 28 settembre a Modena presso il Museo Mazzetti dalla Fondazione Qualivita in collaborazione con il Consorzio Aceto Balsamico di Modena IGP e il Consorzio Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP in concomitanza di Acetaie Aperte). Fabrizio Roversi sulle pagine di RFood – Repubblica ripercorre questi itinerari del gusto nell’Italia dei prodotti DOP IGP.
Il Paese falce e coltello
Viaggio di un aspirante Trat-Turista per Caso nell’Italia dei prodotti DOP e IGP tutelati dai consorzi. Dal culatello di Zibello alla castagna di Combai i percorsi e gli eventi fotografati da un’indagine della fondazione Qualivita
di Patrizio Roversi
“Seduto in poltrona in casa mia guardo il comparto della libreria dove ho raccolto i miei ricordi di viaggio: un san pietrino raccolto nella via Pàl a Budapest in ricordo del romanzo di Molnar; uno scacciamosche comperato ad Addis Abeba e una statuetta del presepio comperata in via San Gregorio Armeno a Napoli. E basta. Pochi, polverosi e oltretutto risalgono ormai a parecchi anni fa. Le cose che porto a casa, oggi, dai miei viaggi stanno poco più in là, nel frigo e nell’angolo cottura: una bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo presa a Lanciano in occasione della festa per i 50 anni della DOP; un vasetto di raro miele delle api nere siciliane che mi hanno regalato la settimana scorsa a Castel San Pietro Terme in occasione della festa dell’Osservatorio nazionale del miele; una bottiglietta piccola ma preziosa di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP preso in una acetaia a Spilamberto…
Lo ammetto: ormai i miei ricordi di viaggio hanno, più che un’aura romantica, un sapore agricolo. E in questo sono in buona compagnia: secondo una ricerca Ipsos-Enit il cibo è il motivo che spinge un turista su due (48%) a viaggiare in Italia. Mentre secondo il primo rapporto sul turismo enogastronomico, due italiani su tre (63%) ritengono importante l’offerta legata al cibo per scegliere la destinazione dei propri viaggi. Io mi sono trovato impreparato di fronte a moltissime cose, dall’esplosione dei social fino al precipitare del cambiamento climatico, ma invece questo sviluppo esponenziale dell’agri-turismo enogastronomico non mi stupisce. Fin da quando facevo il Turistapercaso ho sempre “mangiato il viaggio”, convinto che “assaggiando s’impara”. E facendo Linea Verde ho potuto vedere da vicino il processo che ha portato la nostra agricoltura a coinvolgere e sviluppare concretamente il mondo del turismo. E non solo in modo utilitaristico e commerciale, della serie “approfitto del turista di passaggio per vendere il mio prodotto”.
Sotto la tovaglia degli agriturismi, c’è di più. A mio avviso tutto è cominciato con l’avvento della cultura-della-coltura dei prodotti tipici, DOP e IGP. Come ben testimoniato dai 20 anni della Fondazione Qualivita, che ha accompagnato questo processo dandogli la dignità del movimento e poi il supporto dell’editoria, le azioni dei Consorzi di tutela che hanno intrapreso il cammino per ottenere la DOP o la IGP sono partite dalla riscoperta della propria storia. Per convincere l’Europa a concedere le denominazioni la tradizione ha dovuto infatti studiare se stessa, coltivare innanzitutto le proprie origini, legittimarsi. Ha dovuto identificarsi in un territorio. Quindi ha dovuto stabilire delle regole condivise fra tutti i produttori (disciplinari) che non possono prescindere, oggi, da criteri anche di salubrità, tracciabilità ed ecocompatibilità. Ha dovuto mettersi in regola, rispettare la legalità. E poi si è trattato di difendere la propria qualità e soprattutto di raccontarla.
Vendere un prodotto DOP significa incorniciarlo in una storia, renderlo una esperienza, dargli un valore (aggiunto) partendo dai valori che lo rendono tale. Negli anni i produttori hanno sviluppato una nuova mentalità, si sono “aperti”, da cui Cantineaperte e poi Frantoiaperti, Malgheaperte, Riserieaperte, Salumificiaperti, Caseificiaperti, ecc. ecc. E offrendo al visitatore curioso/goloso esperienze dirette e coinvolgenti, per il turista era già tutto bello che apparecchiato a dovere! E tutto questo ha indotto il turismo stesso a cambiare, a coltivare una cultura enogastronomica. In questa accezione il “Turismo DOP” può servire anche ad educare il consumatore, per fargli comprendere le dinamiche agricole produttive. Il turismo agricolo, quello vero ed esperienziale, non ha solo una funzione di svago ma anche un valore educativo per la buona alimentazione, la salute, la capacità di scelta critica da parte del consumatore e anche – oserei dire – un valore aggiunto di godimento: se conosci la storia di quello che mangi o bevi, ti piace molto di più. Aggiungete l’organizzazione di un itinerario (le Strade del Vino, dell’Olio, ecc.), qualche fiera, qualche infrastruttura essenziale (ciclovie, sentieri, ippovie, ferrovie locali), la riscoperta delle sagre “vere”, che non sono soltanto un fenomeno folcloristico, una spolverata di web e di social, rosolate e rimescolate il tutto in un sistema locale e… il territorio è servito. Viva l’Italia!
L’affermazione trionfalistica può sembrare esagerata, ma in realtà con questo matrimonio d’amore (e non semplicemente d’interesse) fra agricoltura e turismo, officiato da una gastronomia che non ha eguali nel mondo, abbiamo conciliato armoniosamente le piccole dimensioni locali con un concetto che coltiva addirittura prospettive globali, in termini economici (esportazioni) e di immagine (l’Italia nel mondo è soprattutto la sua gastronomia). Abbiamo esorcizzato la delocalizzazione: il territorio non lo sposti, e nemmeno puoi imitarlo. Già Alcide Cervi diceva agli Americani che pretendevano di produrre il Reggianito (l’attuale Parmesan): “Voi potete copiare quanto vi pare ma il nostro foraggio non lo potete copiare, nemmeno le vacche, né la terra né il sole. Il contadino emiliano è difficile da copiare, come tratta la tecnica e la terra, se assaggiate il Reggianito, c’è una differenza col Grana come come tra una bistecca di manzo e una gomma americana”. E l’unicità è una specifica dimensione culturale italiana che riesce tra l’altro a tenere dentro tutto: dallo stile di vita al buon vivere, dal buon mangiare al paesaggio. Roba che non succedeva così dai tempi del Grand Tour!
E c’è anche l’economia: le tipicità agroalimentari valgono 15 miliardi di euro e rappresentano il 22% delle esportazioni agroalimentari italiane (XV rapporto Ismea-Qualivita) e l’alimentazione legata al turismo vale 30 miliardi di euro. Ma non basta. Cosa manca? A mio modesto avviso bisogna cercare di “tirare dentro” a questo processo sempre più contadini, potenziali produttori tipici e sempre più consumatori, turisti enogastronomici e non solo. Ci sono diverse filiere agricole italiane che, nonostante i loro prodotti di altissima qualità, fanno fatica a sopravvivere, dalla Sicilia (agrumi) al Piemonte (riso), dalla Puglia (ortofrutta) all’Abruzzo (uva da tavola). Queste filiere andrebbero convinte a fare causa comune fra i produttori, a valorizzarsi-rappresentarsi-autostimarsi di più. E i consumatori andrebbero convinti a valutare di più (anche economicamente) la qualità. In poche parole consumatori e produttori uniti nella lotta! C’è anche il simbolo: falce e coltello. Ma per fare questo bisognerebbe impegnarsi in una grande operazione di mediazione, in pratica di informazione e divulgazione, partendo dalle pratiche agricole, cioè dalla terra, passando per i processi di trasformazione per arrivare alla gastronomia. Oggi gli intellettuali che ci spiegano il mondo sono diventati gli chef (negli anni ’80/90 erano gli stilisti), ma trascurano spesso l’antefatto, cioè la materia prima e il suo contesto. A proposito di cultura e di legittimazione: non è un caso che l’Enciclopedia Treccani stia aggiornando la nostra lingua introducendo nel suo prestigioso vocabolario anche termini legati all’agricoltura e al cibo.
Anche se nessuno me lo chiede, ve lo dico lo stesso: per dare un mio modestissimo contributo alla causa, il mio prossimo viaggio vorrei che fosse un viaggio in trattore lungo tutta la penisola. E sul trattore ci metterei un mappamondo, simbolo del progresso, come faceva Aldo Cervi, uno dei sette fratelli, uno che “portava a spasso il mondo” sul suo Landini 50 hp, perché aveva capito che è dall’agricoltura che riparte il futuro e spunta il sol dell’avvenire…”.
Fonte: RFood – La Repubblica