Trump, dazi e Indicazioni Geografiche:
la strategia USA e la risposta europea
Dietro le tariffe, un piano politico che punta a ridisegnare gli equilibri commerciali mondiali, colpendo fortemente il made in Italy. Un’analisi e qualche proposta.
Di Mauro Rosati – Direttore della Fondazione Qualivita
I dazi non sono solo una questione di politiche tariffarie: dietro c’è una strategia globale che riflette la visione del mondo di Donald Trump, una visione che si abbatte anche sull’Italia.
La politica di Trump si nutre di immagini forti, slogan semplici e parole dirette, senza mediazioni. Per questo è importante capire cosa comporta per l’Italia – e in particolare per il suo sistema agroalimentare – l’approvazione del nuovo rapporto tariffario degli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti sono il primo mercato di destinazione della Dop economy italiana: i dati dell’Osservatorio Qualivita rilevano esportazioni per 2,5 miliardi di euro fra vino e cibo, il che significa che oltre un euro su cinque dell’export DOP IGP proviene dagli USA (21%). Il primo settore italiano DOP IGP verso gli Stati Uniti è il vino con 1.656 milioni €, seguito dai formaggi (456 milioni €), gli aceti balsamici (225 milioni €) i prodotti a base di carne (106 milioni €) e gli oli extravergine di oliva (30 milioni €).
Contro le regole giuste
Occorre andare oltre i numeri e le dichiarazioni di facciata, leggendo con attenzione anche le pagine meno evidenti del documento. Colpisce, ad esempio, che un intero capitolo sia dedicato all’attacco verso l’Europa e, in particolare, contro il sistema delle DOP e IGP, mentre a settori ben più rilevanti in termini economici siano riservate solo poche righe. Questa sproporzione fa riflettere: cosa rappresentano, per Trump, i pochi miliardi di export europeo di vini e formaggi a denominazione d’origine?
Qualcuno potrebbe obiettare che l’ostilità verso le Indicazioni Geografiche non sia una novità: da anni, infatti, la lobby americana del CCFN (Consorzio per i Nomi Comuni dei Cibi) cerca di erodere quote di mercato ai danni dei prodotti italiani, promuovendo imitazioni come “Parmesan“, “Fontina“, “Asiago”, “American Grana” made in USA. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che gli Stati Uniti non hanno mai aderito alla sezione degli accordi TRIPs relativa alla tutela delle Indicazioni Geografiche e agli accordi di Lisbona in sede WIPO. Anzi stanno facendo leva per togliere i fondi alle organizzazioni internazionali che si occupano di gestire le regole giuste nel mondo.
Ciò che preoccupa oggi, però, è il quadro politico più ampio: un’America trumpiana che non punta a costruire regole condivise, ma a imporre le proprie, rompendo gli equilibri internazionali. Basti pensare all’uscita dal trattato con l’OMS o alla proposta – tanto provocatoria quanto simbolica – di “acquistare” la Groenlandia. In questo scenario, l’Europa – con tutti i suoi limiti – è riuscita a costruire una politica agroalimentare coerente e riconosciuta globalmente, anche grazie agli accordi bilaterali che lo stesso report americano oggi intende mettere in discussione.
Obiettivo: sostituire i prodotti italiani e francesi sugli scaffali globali
Perché, allora, tanto spazio allo stop dei nostri prodotti? La risposta è semplice: nei prossimi mesi, sugli scaffali dei supermercati americani ci sarà più “Parmesan” e meno Parmigiano. Un effetto immediato e visibile, che Trump potrà sbandierare come successo politico a favore dei farmer statunitensi. Molto più facile da comunicare rispetto, ad esempio, agli effetti di un dazio sull’acciaio nascosto dentro una macchina.
Un altro elemento da sottolineare è la capacità di Trump di influenzare direttamente i grandi imprenditori della distribuzione americana – da Walmart a Costco – spingendoli ad assecondare questa strategia di sostituzione. In questo gioco politico-commerciale, il sistema distributivo americano diventa un alleato chiave.
Basta ricordare lo sguardo di Tim Cook, CEO di Apple, durante uno degli incontri pubblici con Trump: costretto a partecipare e a sorridere accanto al Presidente, pur sapendo che le politiche protezionistiche della sua amministrazione avrebbero inflitto danni enormi alla sua azienda.
In questo contesto, emerge anche un obiettivo più ambizioso: imporre perfino agli alleati più stretti l’accettazione di un export di prodotti agroalimentari “fake”, magari vestiti di tricolore, ma interamente prodotti negli Stati Uniti.
Nello scaffale globale: conseguenze economiche e strategiche
Nel dettaglio, la questione dei dazi porta con sé due considerazioni rilevanti da tenere a mente. La prima riguarda le aziende italiane, soprattutto quelle di prodotti a lunga stagionatura, che hanno già pianificato gli acquisti delle materie prime sulla base di stime di mercato e prezzi oggi completamente stravolti. Il rischio concreto è che il costo finale del dazio ricada sull’anello più debole della filiera: l’agricoltura. I trasformatori, infatti, potrebbero essere indotti ad abbassare i prezzi di acquisto per compensare l’extra-costo imposto dalle tariffe, scaricando così l’impatto sui produttori primari.
La seconda preoccupazione riguarda i mercati interni. Con il ritiro forzato di molti prodotti europei dagli scaffali americani, si creerà inevitabilmente un surplus di offerta in Europa. I distributori, approfittando della situazione, potrebbero spingere al ribasso i prezzi di acquisto, costringendo i produttori – con magazzini già pieni – a una sorta di svendita forzata per evitare il deperimento della merce o il blocco delle nuove produzioni.
Ma c’è anche una terza riflessione strategica, forse la più pericolosa. La politica commerciale di Trump non si limita a colpire i Paesi “nemici”, ma mira a utilizzare le nazioni “amiche” come strumenti per sostituire progressivamente i prodotti agroalimentari europei con alternative provenienti da altri mercati. Penso, ad esempio, alla competizione tra i vini italiani e francesi e quelli prodotti in Paesi terzi, promossi grazie a nuovi accordi di libero scambio. I nostri produttori sanno bene quanto tempo, lavoro e investimenti siano necessari per conquistare centimetri di scaffale all’estero: perderli in pochi mesi a causa di una strategia geopolitica aggressiva sarebbe un danno enorme e difficile da recuperare.
Una politica nuova per l’Europa
In questo scenario, l’Europa è chiamata a una reazione forte, coesa e lungimirante. Non basta solo difendere il sistema delle Indicazioni Geografiche: serve una vera politica agroalimentare internazionale che riconosca il valore strategico delle produzioni tipiche, non solo come motore economico, ma come leva culturale, diplomatica e ambientale.
Trump sta riscrivendo le regole del commercio globale, e lo sta facendo a colpi di dazi, tweet e imposizioni unilaterali. L’Europa, se vuole restare al passo, dovrà rispondere con un nuovo protagonismo politico e con un’azione coordinata in difesa della qualità, della legalità e della sovranità alimentare.
Cosa fare subito in Italia
Ci sono nel frattempo una serie di azioni strategiche che il nostro Paese può compiere per salvaguardare e promuovere un pilastro dell’economia agroalimentare, quale è il settore del cibo e del vino di qualità a Indicazione Geografica.
In primis, ad oggi l’Italia non ha ancora aderito all’Atto di Ginevra sul riconoscimento internazionale delle Indicazioni Geografiche: in questo scenario, è fondamentale che il Governo e il Parlamento si impegnino ad approvare al più presto il disegno di legge n. 1502, che sancisce l’adesione formale a questo strumento internazionale di tutela, ribadendo una posizione netta e decisa sul tema. Occorre, inoltre, semplificare e rendere meno oneroso il processo di registrazione dei marchi IG attraverso l’Agenzia dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), che oggi applica criteri complessi e costosi, penalizzando i produttori italiani. Si tratta di due passaggi non soltanto formali, ma che rappresentano un supporto politico e operativo al sistema di tutela e salvaguardia delle produzioni territoriali italiane. Questo dovrà essere coadiuvato, a livello nazionale, da un provvedimento strutturato per sostenere economicamente le spese legali e operative legate alla tutela dei marchi italiani all’estero – in particolare quelle sostenute dai Consorzi di tutela. Serve, infine, una misura straordinaria per la promozione dei prodotti nei Paesi terzi: uno strumento agile, privo dei vincoli burocratici imposti dalla normativa europea, che spesso risultano insormontabili per i produttori, specialmente per quelli di piccole e medie dimensioni. Solo così sarà possibile aprire nuovi mercati, rafforzare la presenza del made in Italy e difendere concretamente le nostre eccellenze agroalimentari.