Lo Strachitunt DOP si prepara a tornare sul mercato. Lo scorso agosto, il formaggio della Val Taleggio eletto come «il più buono d’Italia» dallo chef Gianfranco Vissani, aveva dovuto clamorosamente sospendere la DOP rilasciata da Bruxelles solo un anno prima: le forme erano fuori misura rispetto a quanto previsto dal disciplinare. I parametri ora sono stati aggiustati, come richiesto dal Consorzio di tutela: «Per aprile – spiega il presidente Alvaro Ravasio – dovremmo avere l’ok dal ministero e dell’ente certificatore, quindi bisognerà attendere almeno 75 giorni per la stagionatura. Da giugno prevediamo di tornare sul mercato col marchio Strachitunt DOP». Il «pasticcio» scoppia l’estate scorsa: alcune forme che uscivano dalla produzione (le aziende sono due, Cooperativa Sant’Antonio e Guglielmo Locatelli, entrambe di Vedeseta) non rispettavano l’altezza, ovvero lo scalzo (fissato nel disciplinare trai 15 ei 18 centimetri) facendo sballare anche gli altri parametri: diametro tra 25 e i 28 centimetri e peso tra i 4 e i 6 chili. Per esigenze di mercato era stata abbassata», si disse. Intanto, però, il ministero delle Politiche agricole impone lo stop: finché non ci sirimetterà in regola non si potrà vendere come Strachitunt.
La produzione, in realtà, non si è fermata, ma sul mercato il formaggio, che fa parte anche del marchio «Principi delle Orobie», è stato immesso come «Stracchino di montagna a due paste», a ricordare anche la particolarità di questo antichissimo prodotto caseario, riscoperto negli Anni Novanta. «La perdita è stata contenuta nel 15- 20% – continua Ravasio – e sostanzialmente limitata ai supermercati che esigevano di avere la DOP. Negozi e ristoranti nostri tradizionali clienti, invece, ci hanno costantemente sostenuto; qualcuno che siè sforzato di vendere di più per aiutarci. La preoccupazione iniziale, alla fine, è venuta meno, grazie alla solidarietà e al sostegno che abbiamo ricevuto. Si è così continuato a produrre 70 forme a settimana, proponendole come “Stracchino di montagna a due paste”».
Fonte: L’Eco di Bergamo