Sono 845 i prodotti nazionali “tutelati” il giro d’affari supera 19 miliardi di euro. Lollobrigida: «Per la promozione va utilizzata anche la rete museale».
Quando si parla di eccellenze si pensa a prodotti di nicchia, a cibi costosi e magari introvabili per gastrofanatici. L’ennesimo record della Dop economy italiana dimostra invece che è più corretto parlare di alta qualità diffusa, a prezzi ragionevoli. Il XX Rapporto Ismea-Qualivita calcola che il sistema degli 845 prodotti a denominazione protetta (319 nel settore cibo e 526 nel vino) vale 19,1 miliardi di euro alla produzione (+16,1% su base annua), con l’export che raggiunge i 10,7 (+ 12,8%). Il punto di forza è l’attività dei 198.842 operatori (controllati da 291 consorzi di tutela) che non può essere delocalizzata. Il ministro all’Agricoltura e alla sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ne ipotizza addirittura la valorizzazione nei musei, «per utilizzare anche la rete museale italiana per promuovere i nostri prodotti e i nostri prodotti per promuovere la rete museale».
IL TREND
Le filiere dei prodotti a marchio crescono in modo quasi omogeneo in tutto il Paese. Il Lazio (dove l’impatto dei 65 prodotti tutelati sul totale della produzione alimentare è di appena il 3% contro una media nazionale del 21%) è tra le regioni con più margini di sviluppo. Il comparto del cibo (29 prodotti) è cresciuto del 19,1% a fronte di un calo (caso unico in Italia) del vino (26 prodotti) del 3,3%. Roma con un giro d’affare di 64 milioni è la provincia che produce più DOP/IGP/STG, seguita da Viterbo (25), Latina (19) e Frosinone (13).
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LE CRITICITA
Non mancano, ovviamente, i problemi da affrontare a partire dalle incertezze della nuova politica europea. «Ma neanche nel contesto nazionale – afferma Mauro Rosati, direttore generale della Fondazione Qualivita – le cose sembrano molto chiare». Esemplare la moltiplicazione di marchi territoriali pubblici, come i 5.540 Pat (Prodotti agricoli tradizionali) e le centinaia di De.Co (Denominazioni comunali). «Questa proliferazione – sostiene Rosati – rischia piuttosto di generare un disorientamento per i consumatori e pone difficoltà alle imprese; si instaura infatti una sorta di concorrenza sleale fra le aziende che aderiscono al rigidi controlli per le DOP IGP e le altre che possono fregiarsi di un marchio pubblico, pur senza vincoli particolari».
Fonte: Il Messaggero