Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi e membro del Comitato Scientifico di Qualivita, tratteggia uno scenario aggiornato della produzione e delle sfaccettature dei mercati del vino
“Il vino non è semplicemente in ripresa, il vino è il prodotto della ripresa”, Ne è convinto Riccardo Cotarella presidente di Assoenologi (l’associazione degli enologi ed enotecnici italiani), ma soprattutto vera e propria enostar, ovvero un tecnico che vanta consulenze in ogni parte d’Italia, dalle cantine delle celebrities di stanza in Toscana alle innovative cantine sociali dell’Alto Adige come dell’Abruzzo, ma anche in ogni parte del mondo dagli Usa all’Est Europeo, dalla Russia fino al Giappone.
Una vastissima rete di consulenze portata avanti seguendo pochi principi chiave: riduzione delle rese e della produzione per ettaro a favore della qualità e del valore aggiunto e rispetto ma anche reintepretazione della vocazionalità ovvero dell’interazione tra vitigno (preferibilmente autoctono ma anche internazionale) e il territorio per arrivare a esprimere il massimo della qualità in ogni terroir.
L’attività svolta in ogni angolo vitivinicolo del mondo consente inoltre a Riccardo Cotarella di tratteggiare uno scenario aggiornato in tempo reale della produzione e delle sfaccettature dei mercati del vino.
In che senso il vino è il prodotto della ripartenza?
“Perché c’era da aspettarselo che il ritorno alla vita avrebbe portato con se un incremento delle vendite di vino. Il vino è il perno della convivialità e per questo è il prodotto che risente di più del clima di ritorno alla vita, alla spensieratezza e all’allegria. Ne è il compagno ideale. E oggi vedendo le strade e i ristoranti che si riempiono di persone mi sento un po’ come in quelle foto del secondo dopoguerra nelle quali la gente si baciava e ballava per strada. La pandemia non è stata una guerra, ma neanche una passeggiata. Speriamo davvero sia alle spalle”.
Tutto questo si sta riversando sui conti delle imprese?
“Altroché. Crescono le vendite, ripartono le esportazioni e ripartono anche i prezzi. Dei vini di pregio come anche dei vini comuni. Le quotazioni del vino sfuso sono passate da 3o euro a so euro a ettolitro. E alcune imprese confessano di avere dati di vendita migliori non del 2020 ma del 2019”.
Le gelate primaverili incideranno sulla vendemmia?
“Certo che sì. Nel Veneto orientale in Valpolicella sono stati distrutti ettari ed ettari di vigneti e questo già ha fatto schizzare al rialzo i prezzi. La prevista riduzione produttiva a causa delle gelate danneggerà qualcuno ma consentirà di ridurre le giacenze e sostenere i listini. Anche se – non va dimenticato – ci sono anche alcune situazioni di sofferenza come nell’Oltrepo pavese e in Abruzzo. Avevamo chiesto in questi una distillazione di soccorso ma in pochi hanno sostenuto la proposta di Assoenologi”.
Per avere successo sui mercati la chiave è l’interazione vitigno/ territorio?
“Assolutamente sì. Io sono per il rispetto non tanto delle tradizioni ma delle vocazioni. Della vocazione di ogni singolo terroir. Solo la grande varietà dei territori italiani può consentire di arrivare a vini unici. Perché per stare sul mercato occorre fare vini unici. Produrre solo vini buoni non basta più”.
Meglio i vitigni autoctoni o gli internazionali?
“Le diverse aree in Italia spesso si esprimono meglio con i vitigni autoctoni. Ma non deve essere un dogma. Bisogna sempre sperimentare e ricercare strade nuove. Abbiamo parlato del Dopoguerra. A quei tempi il vino italiano era Nebbiolo in Piemonte e Sangiovese in Toscana e poco altro. Lo dobbiamo alla ricerca se sono stati riscoperti, a volte proprio scoperti, i vitigni autoctoni che oggi sono una nostra ricchezza. Ma dobbiamo alla ricerca e alla sperimentazione anche il fenomeno dei supertuscan, nati dall’intuizione di un enologch Giacomo Tachis, che sperimentò i vitigni internazionali, Cabemet Sauvignon e Merlot in Toscana. A quell’epoca Bolgheri era territorio di pesche e meloni e oggi è un’area vitivinicola conosciuta e apprezzata in tutto il mondo”.
Fonte: Il Sole 24 Ore