La Repubblica
Lo svizzero era venuto in Langa per fare il contadino. C’era venuto con la famiglia e non avrebbe voluto tenere gli animali, avrebbe preferito coltivare i campi. Ma a Roccaverano o fai il formaggio o fai il formaggio. E da quelle parti il formaggio è per antonomasia la robiola, uno dei pochi caprini in Italia a reggere senza difficoltà il confronto con gli chèvre francesi. Così André Pfister e la moglie Simone Stutz, cresciuti a Zurigo e trapiantati nel 1991 in una cascina di Mombaldone, presero trenta capre e si misero a produrre la formaggetta tipica. Ora di capre ne hanno 180 e sono considerati tra i produttori più rinomati (nel 2008 hanno vinto la «Grolla d’oro» a Saint-Vincent), ma in paese sono ancora “gli svizzeri”. «Il postino ci ha raccontato che all’inizio, al bar dicevano che eravamo un po’ matti e scommettevano su quanti mesi saremmo rimasti qui – racconta André – in effetti a ripensarci è stato tutto così surreale. Io avevo 27 anni, mia moglie 25 e i nostri due figli 2 e 4 anni. Avevamo pochi soldi, mentre i poderi in Svizzera dove fare agricoltura biologica erano inaccessibili per i costi. Quando abbiamo trovato questo rudere in Piemonte, ci è sembrato perfetto». La decisione di iniziare con un allevamento di capre, principalmente di razza Camosciata alpina, è stata quasi obbligata visto che la formaggetta era l’unico prodotto locale che avesse un mercato. Un tempo non c’era cascina, in quel tratto di Langa tra l’Astigiano el’Alessandrino, che non facesse per sé qualche formaggetta con il latte crudo, ispirata ad una procedura che risale – così si dice- agli insediamenti dei Celti-Liguri e di cui la prima citazione scritta è nella Summa Lacticiniorum del 1447. Ma per trovare la data di nascita della “moderna” robiola di Roccaverano si deve andare all’ 11 dicembre 1948: il sindaco aveva convocato tutti i concittadini nella sala del cinema Roma perché Fausto Murialdi,il giornalista del paese, aveva idee importanti pervalorizzare la formaggetta tipica. Murialdi, premettendo che avrebbe parlato in italiano e non in piemontese per sua maggiore facilità di espressione, prese la parola: «L’attuale produzione stagionale non dà i vantaggi che la “fama” del nostro prodotto potrebbe procurarsi se si studiasse il modo di creare una latteria sociale o un caseificio. Il formaggio è l’unica nostra risorsa, ma quello che vediamo venduto nelle città è molte volte di qualità infima e il Comune ha già studiato la possibilità di brevettare il nome di Roccaverano perché non possa più essere usato da commercianti poco scrupolosi ». In quel periodo la robiola (in piemontese si pronuncia robiola, dal latino ruber, per la colorazione rossastra che assume durante la stagionatura) era già conosciuta nei negozi di Genova e di Torino. Tre anni dopo quella riunione nacque una cooperativa agricola, nel 1962 si istituì il caseificio sociale, che nel luglio del 1968 iniziò la produzione.
Quelle “formaggette” che non temono i grandi chèvre francesi