Gli agricoltori pugliesi come i pastori sardi. Crollo dei prezzi, importazioni selvagge, prodotti di qualità ma ormai senza mercato: nelle campagne la situazione è disperata. E i gesti sono estremi: alberi eradicati, frutti non raccolti e lasciati marcire. Tanti si arrendono. «Così non si può andare avanti», dice Michele Gravina, un coltivatore diretto della provincia di Taranto, prima di lui il padre e il nonno. Ha cinque ettari, alcune piante arrivano a produrre anche un quintale di clementine a stagione. Ma sono tutte lì, a terra o sui rami. «Ci avrei rimesso. Il prezzo di vendita, circa 20centesimi al chilo, è talmente basso da non coprire neppure le spese di raccolta. Per rientrare nei costi, dovrebbe essere almeno50 centesimi, ma da queste parti è impossibile. Lavorare così non è dignitoso».
A rischio un intero comparto, famiglie che da generazioni vivono dei prodotti della terra. Paolo Morgese, n queste campagne di Massafra, ha sei ettari. Per molto tempo sono stati fonte di reddito, poi le cose sono cambiate. «L’unica soluzione è stata abbattere gli alberi più grandi. Meglio avere il terreno vuoto che continuare. Erano il mio quotidiano: li aveva piantati mio padre negli anni ’60, con l’aratro a cavallo. Fa male». Un mestiere fatto di sacrifici e rinunce, scandito dalla natura. Le ferie non esistono. Quest’anno, perso oltre il60% di agrumi: 1,5 milioni di quintali invenduti. I prezzi sono dotti ai minimi storici: 35centesimi per il prodotto già raccolto e 15, o addirittura 5, per l’acquisto in blocco.
Crescono invece gli approvvigionamenti da Africa e Sud America: in soli due mesi, il Marocco ha esportato 170milatonnellate di clementine. «La produzione magrebina- denuncia Coldiretti- raggiunge prima la Spagna dove viene lavorata e, una settimana dopo, il nostro Paese. Applicano un’etichetta spagnola e la spacciano come comunitaria». Oltre l’aspetto economico-occupazionale, a rischio la salute dei consumatori: Egitto e Marocco utilizzano sostanze chimiche che, in Italia, sono vietate da decenni. Nicola Cassano, con i suoi quarant’anni, non sa che fare. Il suo appezzamento al momento è in uno stato di semi abbandono. «Come i pastori sardi, anche noi siamo arrivati al limite. Siamo scoraggiati: sino a poco tempo fa lavoravano con me dieci persone, ora siamo in quattro. Sarò il primo a dire ai miei figli di prendere un’altra strada».
Fonte: La Stampa