Le rivoluzioni cominciano « per strada e finiscono a tavola» – diceva Leo Longanesi -. Pechino invece vuole evitare che dal pranzo si vada direttamente in piazza, per colpa del maiale, visti gli attuali problemi a Hong Kong. Se cambiamento dev’essere, però, le imprese italiane possono approfittarne per guadagnare un posto sulla tavola dei cinesi. Sono 14 mesi che sulla scrivania di Xi Jinping si trova il dossier della febbre suina africana, un’epidemia che ha dimezzato la produzione nazionale, con punte dell’ 80% nelle province dove si sono verificati i primi contagi, Liaoning e jilin. Una vera e propria emergenza nazionale. Il maiale è tradizionalmente la carne più consumata in Cina, nel 2018 ammontava al 60% del totale, circa 30,4 chili pro capite l’anno. Se su scala globale questi valori sono secondi solo al consumo medio dell’Unione europea di 35,5 chili pro capite, diventano ancora più significativi se confrontati con gli u,6 chili di pollo e gli appena 3,8 di manzo e vitello. Dunque, quando un cinese mangia carne quasi sempre mangia maiale e oggi deve pagare fino a 70% in più per assicurarsi il piatto preferito. E il peso della carne di maiale – un mercato da quasi 120 miliardi di dollari – nel paniere di beni nazionali è così rilevante da aver causato un aumento dell’inflazione dal 2,8% al 3%.
Il timore è che una assenza prolungata dalla tavola del maiale – tanto importante nella cultura cinese che il carattere casa/famiglia indica un maiale sotto a un tetto – possa minare la fiducia nell’andamento dell’economia con risvolti politici imprevedibili in un sistema fondato sul consenso in cambio di crescita.
Il problema è noto da tempo e dal 2007 esiste un sistema di riserve nazionali di carne suina immessa nel mercato in queste circostanze per calmierare i prezzi, la cui entità è sconosciuta. Questa soluzione non è però sufficiente a colmare l’appetito dei consumatori cinesi e la Fao prevede che l’import cinese tra il 2018 e il 2020 possano crescere anche del 75% influenzando il prezzo mondiale della carne di maiale. In Europa, intanto, si registra già un aumento dei prezzi del 35% da inizio dell’anno. E, pur nel mezzo della guerra commerciale con Washington, le importazioni dagli Usa della carne di maiale sono aumentate dal 4,3% del 2018 all’11% del 2019 (agosto), superando ogni barriera ideologica. Ma anche l’Europa riesce a fare affari con la crisi suina e nei primi mesi dell`anno le esportazioni verso la Cina sono aumentate di quasi il 50%, un beneficio soprattutto per i grandi produttori come Spagna, Germania, Danimarca e Paesi Bassi. L’Italia al momento è fuori da questa partita, ma può trarre un grande vantaggio dagli effetti indiretti. La crisi suina, infatti, non è solo una questione di ripieno dei ravioli, ma mette in discussione tutta la filiera produttiva cinese in materia di sicurezza alimentare. L’epidemia del `18-`19 non fa che sommarsi alla crisi del 2013, quando carcasse di maiale vennero viste galleggiare nel fiume di Shanghai.
Per provare a risolvere la questione definitivamente il 31 ottobre è stata approvata la revisione della legge sulla sicurezza alimentare che entrerà in vigore a dicembre istituendo controlli più severi e sanzioni individuali per i trasgressori. È un segnale importante della crescente attenzione dei consumatori cinesi per prodotti di maggiori qualità. È in questo contesto che si possono comprendere due decisioni in favore dei prodotti italiani assunte nel 2019. Se nella visita a Roma di marzo Xi Jinping, dopo 15 anni di negoziazioni, aveva finalmente concesso l’autorizzazione per esportare carne suina congelata e sottoprodotti, a inizio mese – per l’Expo di Shanghai – il Prosciutto di Parma DOP e il San Daniele DOP hanno ottenuto un riconoscimento storico. Nella lista dei 1oo prodotti con la certificazione di Indicazione geografica protetta europea sono gli unici prodotti di carne suina, cui si aggiunge la Bresaola della Valtellina IGP. Con la crisi suina la Cina riscopre la qualità e allarga le maglie dell’importazione.
Fonte: L’Economia – Corriere della Sera