Cultura, territorio e proprietà intellettuale nella decisione del Tribunale UE
Il Tribunale dell’Unione Europea, con sentenza in data 23 aprile 2018, si è pronunciato in favore dell’IGP “Piadina Romagnola” (caso T 43/15, CRMCommissione Europea, con l’intervento di COPROM e della Repubblica Italiana). La decisione, a prescindere dalle questioni attinenti al caso specifico, sancisce alcuni importanti principi di carattere generale, con particolare riferimento ai rapporti tra territorio, cultura e proprietà intellettuale. Nel provvedimento, infatti, si legge che “la reputazione di un prodotto” può derivare dal fatto che esso “possiede determinate qualità in quanto proviene dalla zona geografica considerata, in particolare a causa dei fattori naturali od umani connessi a quest’ultima”, ragion per cui – sotto questo aspetto – le sue “modalità di fabbricazione” diventano irrilevanti (punto 46, pagina 10). [blockquote size=”fourth” align=”right” ] L’azienda Crm Srl aveva chiesto l’annullamento dell’iscrizione della IGP [/blockquote]L’immagine di cui un “prodotto gode presso i consumatori”, dunque, risulta “associata alla sua origine geografica indipendentemente” dal modo in cui esso viene realizzato (punto 47, ibidem). In altri termini, “i fattori decisivi per fondare la reputazione del prodotto”, sono “i fattori umani, vale a dire fattori culturali e sociali” (punto 48, ibidem). Appare opportuno sottolineare, prima di addentrarci nelle riflessioni che seguiranno, sarebbe erroneo creare una contrapposizione tra i concetti di qualità e genuinità dei prodotti e quelli della loro reputazione ed immagine presso i consumatori. La qualità delle produzioni rappresenta un presupposto necessario ed irrinunciabile, in mancanza del quale nessun ulteriore discorso potrebbe neanche essere ipotizzato. Detto questo, i principi stabiliti dalla sentenza in esame risultano di estremo interesse e di particolare attualità, specialmente se messi in correlazione con le più moderne teorie del marketing sul consumo simbolico.
Cosumo e cultura
È oggi largamente diffusa, al riguardo, l’opinione in base alla quale i consumatori si orientano nelle varie scelte di acquisto soprattutto muovendosi entro framework semantici di costruzione della propria identità. In un simile scenario, i prodotti sul mercato non sono più semplicemente l’espressione dell’efficienza funzionale derivante dalle loro caratteristiche merceologiche, ma elementi che comunicano qualcosa di più alto e profondo: un profilo identitario, un mondo valoriale. Esimendoci dal formulare in proposito giudizi di carattere morale, dobbiamo riconoscere che il consumo è divenuto nella società contemporanea qualcosa di diverso e di più importante rispetto al fenomeno che abbiamo conosciuto in passato. È stato acutamente detto che “se maggiore è la diluizione del consumo nella vita degli individui, maggiore è anche il suo inserimento al cuore stesso dei loro progetti di vita” ed è “proprio perché gli individui nella loro vita hanno fatto un posto più ampio e importante al consumo che si sentono in diritto di chiedergli di più, di esigere una migliore presa in conto della loro complessità e un’interpretazione più sottile e personalizzata dei loro progetti di vita” (Andrea Semprini, La marca postmoderna, 2006). Il rapporto tra cultura e consumo, insomma, ha assunto oggi caratteristiche nuove e storicamente inedite: “Consumiamo per accudire, per divertirci, per passare il tempo, per compulsione, per sacrificio, per socializzare e per tantissimi altri motivi. In questo senso il consumo è anche il luogo dove si definisce una cultura e le si dà forma” (Andrea Fontana, Story selling, 2010). Il consumo, in altri termini, ai nostri giorni è divenuto – anche – un fenomeno culturale, un percorso identitario, una forma di espressione valoriale.
Consumo e Diritto
Il consumo, ovviamente, riversa i propri effetti anche nella sfera del diritto: in primis, nel definire l’oggetto della tutela garantita da alcuni tra i maggiori istituti della proprietà intellettuale (le Indicazioni Geografiche, ma anche il marchio e il design). Risulta assai delicato, naturalmente, calare nei meccanismi giuridici un elemento come la cultura, per sua stessa natura di difficile perimetrazione e definizione, al punto che si è argutamente scritto: “cultura è un termine vago, una parola autobus su cui sale chi vuole, spesso senza nemmeno pagare il biglietto” (Bruno Arpaia – Pietro Greco, La cultura si mangia!, 2013). Al tempo stesso, non appare più possibile ignorare le interazioni e le contaminazioni oggi incontrovertibilmente esistenti tra cultura e diritto, tra territorio e proprietà intellettuale. Potremo assumere, come punto di riferimento, la definizione a suo tempo tracciata dall’UNESCO: “La cultura in senso lato può essere considerata come l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale.[blockquote size=”fourth” align=”right” ] “La Piadina Romagnola IGP, industriale o artigianale, va prodotta in Romagna”[/blockquote]Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze” (Conferenza mondiale sulle politiche culturali: Rapporto finale della conferenza internazionale organizzata dall’UNESCO a Città del Messico dal 26 luglio al 6 agosto 1982). Dunque, nel riflettere in tema di proprietà intellettuale, specialmente con riferimento alle Indicazioni Geografiche, al marchio e al design, non possiamo allo stato prescindere dalle istanze e dalle espressioni culturali tipiche delle comunità di riferimento. Perché, tornando alle parole della sentenza dalle quali ha preso le mosse il nostro ragionamento, la reputazione di un prodotto nell’economia contemporanea discende in larga misura dai “fattori umani”, vale a dire “culturali e sociali”, del territorio di provenienza.
A cura di Avv. Alberto Improda
Fonte: Consortium_2018/00