L’Unità
A ricordarci come lo sviluppo sostenibile – inteso in senso ampio – si stia pian piano affermando come una delle priorità globali, non c’è solo l’Expo del prossimo anno. Sono infatti molti anche i casi di imprenditori, affermati in vari settori economici, che riscoprono l’agricoltura di qualità e i suoi valori come business in grado di coniugare obiettivi economici, sociali e ambientali. L’ultimo in ordine di tempo è Renzo Rosso, fondatore e azionista di un’importante azienda multinazionale nel settore dell’abbigliamento.
Rosso, veneto nato da una famiglia di agricoltori, è da poco entrato a far parte dell’azionariato di EcorNaturaSì, un’impresa con alle spalle una rete di 400 agricoltori in possesso della certificazione BIO regolamentata dall’Unione Europea. Ma questa esperienza non è che una delle tante, basti pensare al celebre caso di Eataly e del suo fondatore – Oscar Farinetti – imprenditore cresciuto tra gli elettrodomestici nel supermercato del padre, capace di inventarsi dapprima la maggiore catena italiana in quel settore e poi, dopo qualche anno, il primo supermercato interamente dedicato ai prodotti agroalimentari di qualità. Ad un’analisi di superficie, dal punto di vista della sostenibilità economica e sociale, ma anche ambientale, questo fenomeno fa rilevare aspetti positivi, a partire dal fatto che ci sia la volontà di investire soldi e grande professionalità in un settore che vede l’Italia tra le eccellenze mondiali, con un sistema paese sempre più appoggiato alle risorse che la nostra terra sa dare. È positivo anche il fatto che sia la strada della qualità ad emergere. Ad un’analisi di sistema più approfondita, però, queste esperienze fanno emergere contraddizioni molto forti. Per alcuni imprenditori, ad una prima “vita” dove si è sposato un modello di business legato al consumismo, fa seguito una seconda in cui si vanno a “decantare” i principi slow, la difesa della natura e quindi ad investire in aziende che seguono tali filosofie . Cosa succede se mettiamo a confronto i benefici prodotti da un’impresa che produce BIO in termini di costi ambientali (e quindi, a lungo termine, sociali ed economici) con un’azienda che invece produce ad esempio abbigliamento o elettrodomestici? Come dimostra il lavoro di Pavan Sukhdev – ex manager di banca e attuale direttore di un progetto sull’economia degli ecosistemi e della biodiversità per conto di UE e ONU – emerge il dubbio che i noti disastri del cambiamento climatico siano strettemante legati al fallimento di questa economia di mercato legata al consumismo: per fare profitti ed avere successo, le aziende hanno bisogno di produrre cose che diventano presto inutili, in modo che si possa ripensarne subito di nuove. La tesi di Sukhdev è che le aziende hanno smarrito la bussola della responsabilità sociale inseguendo senza sosta potere e profitti e lasciando alla società tutte le conseguenze delle loro azioni. E per un cambiamento di rotta volontario che porti a gestire i processi economici senza consumare tutte le risorse naturali non ci sono, per le aziende, stimoli abbastanza forti. Ma l’ex manager propone una soluzione interessante: inserire l’idea di bene comune nei bilanci aziendali. In sostanza, far sì che il cambiamento di valori delle imprese passi per il calcolo dei costi ambientali che vengono prodotti per realizzare beni e servizi e l’inserimento di questo nei bilanci contabili. Oltre al tentativo di diffondere un corretto utilizzo delle risorse pubbliche, Sukhdev si sta spendendo per creare alleanze con gli organismi della contabilità internazionale come l’International Accounting Standards Board affinché si diffondano standard globali sui metodi di valutazione contabile. Il lavoro di Sukhdev è una sfida importante perché mira a creare una cultura imprenditoriale in grado di ricercare tanto il benessere del cittadino quanto l’equità sociale, con la piena consapevolezza della necessità di ridurre i rischi ambientali. Restano importanti e significativi, dunque, i nuovi investimenti nel settore agricolo da parte di imprenditori provenienti da altre esperienze, ma è anche chiaro che quel tipo di agricoltura, di ambiente e alimentazione saranno possibili in futuro, se e solo se anche le altre imprese seguiranno lo stesso “stile” sostenibile. La Terra dei Fuochi è lì a ricordarcelo.