L’industria alimentare è la seconda manifattura del Paese, con 56 mila imprese, fatto per il 90% da Pmi e solo nel 2% dei casi da aziende oltre 250 dipendenti. La rivendicazione di Federalimentare di rappresentare una filiera vasta, da un diverso punto di osservazione rischia di trasformarsi in un ostacolo quando si devono portare i propri prodotti nel mondo. Filtrato alla lente del marketing, il teorema del “piccolo è bello” s’infrange sugli scogli del commercio globale.
La classifica di Brand Finance dedicata a food e drink è chiara: l’Italia, culla della dieta mediterranea e del buon cibo innaffiato dal vino di qualità, latita. Tutti si ispirano a noi, ma sulle nostre imprese ricade solo una frazione della ricchezza generata nel mondo grazie al richiamo ai metodi produttivi, ai territori, agli ingredienti del Made in Italy. È anche qui che si insinua il famoso italian sounding, l’uso improprio di parole, denominazioni e ricette che richiamano l’Italia senza aver nulla a che spartire con il nostro sistema: secondo Coldiretti, un mercato da 100 miliardi, mentre l’export si ferma a 42. I numeri della classifica dei top brand sono impietosi. Nel food domina Nestlé con 19,6 miliardi di dollari di valore, seguita da Danone e della cinese Yili. Nelle bevande, Coca Cola è irraggiungibile con un marchio che vale 36 miliardi, il doppio della Pepsi e quattro volte il valore di Red Bull. E le italiane? Nella top 50 del cibo abbiamo solo tre rappresentanti. Alba porta in classifica Kinder al 12esimo posto (3,7 miliardi) e Ferrero al 25esimo. Poco sopra, al gradino 23, si colloca la Barilla. Entra anche Parmalat, in mano ai francesi di Lactalis, al 43 esimo posto. Se si limita il campo d’osservazione alla “forza del brand”, che è una componente del suo valore economico ed esprime la capacità di influenzare i consumatori verso l’acquisto, si resta in casa Ferrero con la Nutella a mettersi in evidenza.
Situazione ancor peggiore nelle bevande: troviamo solo Lavazza (al 17 esimo posto per 1,4 miliardi di valore) come alfiere tricolore. «Il brand Italia in ambito food a livello mondiale è fortissimo», spiega Massimo Pizzo che guida Brand Finance nel Bel Paese. Eppure i nostri marchi non s’impongono. E non è solo colpa delle truffe che subiamo: «Solo il 10% dell’italian sounding è composto da falsi, il resto sono prodotti non italiani associabili dai consumatori al cibo italiano». Come la “Mozzarella Casa Italia”, prodotta però in Russia. Partendo dall’assunto che a determinare il successo sul mercato globale sono le scelte fatte dai consumatori col portafoglio, per l’esperto la scarsa rappresentanza in classifica ha una sola spiegazione: «Il food italiano ha grandi margini di crescita, frenati dalla poca forza delle singole marche nell’influenzare le scelte dei consumatori. È un paradosso: il cibo italiano ha reputazione forte, ma i singoli brand sono meno efficaci dei concorrenti nell’imporsi allo scaffale».
Fonte: Affari&Finanza – la Repubblica