A forza di tirare la corda su grassi, sali, zuccheri, alcol e altre sostanze che nuocciono gravemente alla salute, verranno tutti qui. Da noi, a mangiar bene, in questo trapezio bislungo, inciso dal Po e che ci ostiniamo a chiamare Food Valley. Una valle del cibo che Giovanni Boccaccio 667 anni fa aveva classificato nel Decameron come il Paese di Bengodi, più reale di qualsiasi surrealismo valpadano: ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chipiù ne pigliava più se n’aveva.
Se l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 27 settembre dovesse davvero procedere con la segnalazione e l’etichettatura dei prodotti “a rischio”, si spalancherebbero paesaggi straordinari. Popoli di turisti enogastronomici approderebbero nelle pianure, sui rilievi, le lagune, i golfi e le isole della Penisola per intossicarsi, per sperimentare e godere dei rischi degli eccessi.
L’Italia, e quindi la valle del Po che gronda lipidi e stilla sali a tradimento, diventerebbe una meta per i goduriosi del palato. Avamposto dei traditori dell’ONU dietologica. Italia zona franca, come lo sono i casinò e le banche in certi Stati piccolini della vecchia Europa fino alle luci di Las Vegas; come lo sono alcune mete del turismo sessuale nel lontano Oriente o certe fumerie del subcontinente indiano. Con una differenza: nel Paese di Bengodi si grattugia, si affetta, si scola, si fa scarpetta, ci si unge e ci si mette in pace col mondo. L’ONU dovrebbe darci un premio.
Masticare un’idea
Abbandonando per un attimo questo incipit in difesa del Parmigiano Reggiano DOP, del prosciutto crudo, dei vini, degli oli extravergini d’oliva, va scritto che la polenta menata dell’OMS odora di strino. È quello emanato dalle multinazionali, che per la nostra salute più psico che fisica vorrebbero farci assimilare un’idea di formaggio, un’astrazione di prosciutto, una percezione di condimento, uno stilema di alimentazione più chimica che materiale.
Instillare un dubbio
Temo che il tentativo – perché tentativo è – sia quello di instillare il dubbio in milioni di consumatori che molti prodotti storici, di punta e inimitabili del Paese di Bengodi possano contribuire ad alcune patologie diffusissime in Terra. Ne valgano solo tre per tutte: diabete, obesità, malattie cardiovascolari.
Lardellamento
Le statistiche escludono che i divoratori di Parmigiano Reggiano DOP, prosciutto crudo o della pizza abbiano ciccia in eccesso e muoiano prima. Queste ossessioni del lardellamento dei fianchi e delle esequie in anticipo accompagnano altri popoli, grigliano o imbottiscono altre consuetudini alimentari. La verità è un’altra: noi italiani viviamo più a lungo, siamo ancora ciò che mangiamo, costituiamo un popolo d’anziani gourmet: forza, per una volta esultiamo. Non siamo un gerontocomio, ma un refettorio di mangiari ottimi.
OMS ipocondriaca
Il ragionamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sfiora l’ipocondria (ansia per la salute del genere umano) e la rupofobia (paura dello sporco), conferma un’ostinazione che precipita nel microgrammo, nell’etichettatura, in una vita solo fisiologica. Aiuto! Le vittime di questa compulsione sono i prodotti storici, genuini, costosi dei quali mai s’intossicheranno gli anemici mangiatori di riso bollito odi yucca, i polari cacciatori di foche, gli africani affumicatori di bestie della foresta.
Taroccati
Piuttosto la minaccia mondiale, perché l’Organizzazione della Sanità è mondiale, ai prodotti DOP anima e apre i mercati ai loro minacciosi doppioni. Dalla DOP (Denominazione di Origine Protetta) al doppione (tarocco). È il caso del Parmesan prodotto in ogni dove del mondo, Cina compresa, e ritenuto legittimo e salubre, come le mozzarellen teutoniche, gli spagetti stelle e strisce, e altre sofisticazioni, mortificazioni. La storia finirà – per l’appunto – così: i veri intenditori votati all’autolesionismo da cibo verranno qui, mangeranno da noi, soffriranno con noi.
Ridateci il batterio
Ad insorgere più che l’appetito è la nostalgia per il microrganismo, per il batterio, la muffa. Cioè per ogni cosa viva che compartecipa o compartecipava alla produzione del cibo, dei vini, degli aceti, degli oli. Fin dalla preistoria.
La pelle del salame
Non c’è una preparazione commestibile che non sia l’esito di una trasformazione, di una fermentazione, di una lievitazione. Dagli alimenti base come il pane e il vino fino a quelli pregiati, stagionati, inimitabili come appunto i formaggi della Pianura padana o il prosciutto crudo. Per avere una precisa idea olfattiva-visiva oltre che gustativa del lavorio dei grassi, dei sali, dei batteri, della microflora, basta avere memoria del cosmo rappresentato dalla pelle d’un salame (conciato, imbudellato, invecchiato come si deve). Il laboratorio alimentare è esso stesso, sostenuto dallo sforzo umano del raggiungimento del buono, sempre più buono.
Piastrellare e plastificare
L’esordio della trasformazione asettica della storia artigianale dei nostri cibi è datato 1997. Quando l’Italia ha recepito la direttiva europea Haccp (Analisi dei punti critici e di controllo) che ha giustamente piastrellato, plastificato, sterilizzato laboratori, materie prime, operazioni, utensili. Ma la nostra missione è un’altra: è di andare e moltiplicare i grassi e i sali. Con un equilibrio divino.
Fonte: Il Piccolo