Il settore agroalimentare rappresenta una delle ultime grandi eccellenze del nostro paese, perlomeno per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza sul territorio. Ma le sfide da affrontare sono molte come testimonia anche l’indagine Eurispes dei giorni scorsi sulla fuga dei grandi marchi privati. Dal 2008 al 2012 si segnalano numerosi passaggi di proprietà dall’Italia all’estero anche in aree in cui non esistono eccellenze agroalimentari, ma che scommettono sull’efficienza produttiva e di commercializzazione per crearsi mercati importanti con il brand Italia. Intanto nel nostro paese si moltiplicano i segnali di protesta che, anche se di diversa natura e con diversi obiettivi, rendono l’idea di un malcontento generalizzato e della ricerca urgente di risposte e soluzioni.
Analizzando la situazione con Denis Pantini – Direttore Area Agricoltura e Industria Alimentare di Nomisma – è netta l’impressione che la “contesa del Made in Italy”, che impazza in Italia e che vede contrapposte imprese e organizzazioni appartenenti a una filiera che pesa sul PIL per ben il 14%, abbia già dei vincitori: i competitor esteri dei nostri prodotti agroalimentari. Quei produttori, come i tedeschi, che non facendo leva su una distintività analoga a quella che contraddistingue il nostro “made in Italy” alimentare, hanno più di noi puntato su efficienza e competitività di sistema. E i risultati limettono sicuramente in una posizione di forza. «L’attività all’export dell’industria alimentare tedesca – sottolinea Pantini – supera il 30%, contro il 20% dell’Italia, ma nei valori assoluti il divario è si fa ancora maggiore: 55 miliardi di euro contro 26, praticamente il doppio. Superiore all’Italia anche la Francia, con 42 miliardi di euro e appena sotto il nostro fatturato la Spagna, con 22 miliardi».
Rispetto ai tedeschi, però, l’industria alimentare italiana produce più valore aggiunto: 24 miliardi contro 11. «Questo dato – continua l’esperto di Nomisma- è molto significativo perché è dal valore aggiunto che si capisce quanto un settore sia strategico per l’economia di un Paese, visto che tale indice rappresenta la somma delle remunerazioni che vanno ai lavoratori, agli imprenditori, ai prestatori di capitale nonché allo Stato». E se il valore aggiunto prodotto dal made in Italy è maggiore di quello tedesco – nonostante un fatturato minore – è anche grazie ad un più alto posizionamento di prezzo dei nostri prodotti, segnale evidente di un maggiore valore percepito dei nostri prodotti di qualità.
«Senza entrare nel merito del confronto qualitativo – aggiunge Pantini – la Germania esporta di più perché è più competitiva e non soffre di gap strutturali che invece limitano la propensione all’export delle nostre imprese». Il primo fattore riguarda sicuramente la dimensione media delle nostre aziende. Il 70% del valore dell’export alimentare italiano è fatto dall’1,5% del totale delle imprese mentre in Germania la stessa tipologia è pari al 9% del totale. La nostra piccola e media impresa – vero rappresentante della qualità – è messa in difficoltà da due fenomeni profondi. Da una parte la crisi dei consumi interni che obbliga le nostre PMI a guardare a mercati sempre più distanti geograficamente. Dall’altra un “sistema Paese” che anziché supportare le nostre imprese in questa ricerca di competitività rischia di comprometterle definitivamente, soprattutto quelle più piccole. Sistema di tassazione, costo industriale dell’energia elettrica e costo dei trasporti rappresentano senza dubbio le problematiche che sempre più spesso portano alla chiusura o alla svendita delle nostre aziende di qualità. Sono questi i veri nodi sui quali le organizzazioni di rappresentanza, le istituzioni e i policy maker italiani dovrebbero concentrare i loro sforzi, nella consapevolezza che la filiera del made in Italy alimentare non solo è un valore per il Paese, ma senza di essa non potrebbe sopravvivere nessuna delle componenti che ne fanno parte.