La Cina domina il mercato italiano del peperoncino offrendo un prodotto meno pregiato e sicuro, ma venduto ad un costo quattro volte inferiore a quello italiano.
Per via della pandemia abbiamo cambiato i nostri consumi: mangiamo più pasta perché stiamo in casa, mangiamo più peperoncini convinti che tengano lontano il virus e lo stesso vale per l’aglio. Così il nostro piatto di spaghetti non solo è appetitoso ma ha un retrogusto antivirale. Tant`è che sul sito del ministero della Salute c’è un’avvertenza per difendersi dalle bufale in rete. Testuale: “Il peperoncino piccante nel cibo, anche se molto saporiti, non possono prevenire o curare Covid-19. L’aglio è un alimento con alcune proprietà antimicrobiche, ma non ci sono evidenze di azione preventiva nei confronti del nuovo coronavirus“. Magari tiene lontano i vampiri, ma fermiamoci lì. Però c`è un altro virus cinese che attacca stavolta l`economia e segnatamente peperoncino e aglio. È scoppiata una guerra piccante denunciata dalla Cia – Confederazione italiana agricoltori – che sostiene come anche a causa dell`incremento di domanda il peperoncino cinese ha scacciato dalle tavole e dai supermercati quello italiano. La faccenda non è di poco conto perché per molti agricoltori, soprattutto del Sud, e per molti trasformatori il peperoncino è «oro rosso».
Si apre un nuovo, grave fronte di mancata tutela dei prodotti nostrani e il neoministro pentastellato dell`Agricoltura Stefano Patuanelli avrà di che battagliare a Bruxelles con il commissario agricolo Janusz Wojciechowski visto che la dieta mediterranea è sotto attacco sia con la famigerata etichetta Nutriscore che con il piano anticancro europeo; il peperoncino di certo è uno degli emblemi del nostro regime alimentare ma scarsamente tutelato dal dumping estero. In Italia s`importano più di 2 mila tonnellate di «diavolicchi» perché la produzione nazionale, di ottima qualità, non soddisfa minimamente la domanda. Copriamo non più del 20 per cento del fabbisogno con una produzione che non supera le 400 tonnellate, divisa tra Calabria (che da sola realizza il 25 per cento del peperoncino italiano), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Tra importazioni e produzione locale si tratta di circa una quindicina di milioni di euro. Come dice il presidente dell`Accademia del Peperoncino – che ha sede a Diamante, ovviamente in Calabria – Enzo Monaco: «La nostra qualità è altissima, ma la produzione di fatto non esiste». E ora è schiacciata dalla concorrenza cinese. Dall`Oriente importiamo circa 1`80 per cento del nostro fabbisogno (il resto arriva da Turchia ed Egitto) solo che è merce di scarsa qualità. Il prezzo però fa la differenza. L`allarme della Confederazione degli agricoltori si concentra su questi due aspetti: il prodotto cinese arriva a 3 euro contro i 15 del costo medio di quello italiano, ma mentre quello italiano è controllato e selezionato quello orientale contiene di tutto.
Spiegano alla Cia: «Se in Italia, da 10 chilogrammi di peperoncino fresco si ottiene un chilo di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100 per cento e commerciabile a 15 euro, l`analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli 3 euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane: la piantina viene interamente triturata – compresi picciolo, foglie, radici – con requisiti fitosanitari ben diversi da quelli conformi ai regolamenti europei. La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile e anche quando il peperoncino arriva fresco o semi-lavorato da Turchia o Egitto, la qualità è compromessa dai molti conservanti. Il peperoncino italiano, fresco o lavorato, ha prezzi molto più alti perché raccolto a mano e la trasformazione avviene con tecniche d`avanguardia compresi macchinari per l`ozono per una perfetta essiccazione».
di Carlo Cambi
Fonte: Panorama