Con il 25% di dazi, le aziende stringono la cinghia, azzerano i margini e puntano a mantenere inalterate le quote di mercato. Con la minaccia di Trump, ieri, di innalzare al 100% i dazi su quegli stessi prodotti del Made in Italy agroalimentare – se l’Italia deciderà di approvare, con la Legge di bilancio in discussione anche la Digital tax (cioè il tentativo di far pagare ai colossi del web un po’ più tasse in Italia) – rischia di far deragliare fuori mercato mezzo miliardo del nostro export food and beverage.
Perchè se l’Ufficio commerciale della Casa Bianca – lo Ustr – ha proposto dazi fino al 100% contro 2,4 miliardi di dollari di importazioni da Parigi, ha minacciato future rappresaglie analoghe anche contro quei Paesi europei che intendano dotarsi di simili imposte sui servizi digitali, mettendo nel mirino anche l’Italia, l’Austria e la Turchia. I dazi Usa del 25%, già introdotti il 18 ottobre come generica ritorsione sui prodotti europei per presunti aiuti illeciti dati all’aerospazio, già oggi penalizzano – come mostrano i dati di Federalimentare – per il 54% il lattiero-caseario, per il 36% i liquori (ma non i vini) e per quasi il 10% salumi e insaccati. Prodotti come Parmigiano Reggiano DOP, Grana Padano DOP, Gorgonzola DOP, Asiago DOP, Fontina DOP, Provolone Valpadana DOP ma anche salumi, crostacei, molluschi, agrumi, succhi e liquori, già in difficoltà, con l’aumento al 100% sarebbero completamente fuori mercato negli Stati Uniti. E a trarne vantaggio sarebbero i 192 milioni di chili di parmesan del Wisconsin o i 181 milioni di chili di provolone californiano.
«Il dazio al 100% per il Parmigiano Reggiano DOP e per il Grana Padano DOP ad esempio – ha sottolineato Ettore Prandini, presidente di Coldiretti – farebbe aumentare il prezzo al dettaglio a quasi 7o dollari al chilo, un valore superiore anche di 3-4 volte rispetto al parmesan di produzione Usa che viene posto ingannevolmente sullo stesso scaffale dell’originale Made in Italy». Una prospettiva che rischia di mettere definitivamente in crisi una “luna di miele” tra il cibo italiano e il consumatore Usa che va avanti da anni. «Solo nei primi otto mesi dell’anno – ha spiegato Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare – l’export italiano è cresciuto complessivamente del 15% negli Usa. Quello dei soli formaggi, di oltre il 25% rispetto allo stesso periodo del 2018». Molto di più rispetto alla crescita europea (+4,6%). E se l’Ue rappresenta il 77% di tutto l’import di formaggi sul territorio americano, l’Italia da sola detiene un market share del 23%.
Ad agosto-settembre, prima che il dazio Usa entrasse in vigore, c’è stata un’ondata di acquisti-scorte. I rallentamenti si vedranno tra qualche mese. «Le aziende e tutti i nostri operatori – spiega Vacondio – sono preoccupati. Chiediamo alla politica un intervento mirato al dialogo con la controparte statunitense e a far comprendere l’inutilità di una guerra al rialzo dei dazi». Non solo.«Il timore – spiega Paolo Ganzerli, International Sales director di Parmareggio – è anche che scattino i dazi a “carosello”, cioè che ruotino arbitrariamente su altri prodotti, creando incertezza, ma anche che un ulteriore aumento dei dazi comporti maggiori quantità di merce immessa sul mercato europeo tale da farne crollare i prezzi».
Trump vedrà oggi il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al vertice Nato a Londra. Ieri, l’unica voce del Governo a prendere posizione è stato il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Teresa Bellanova: «Dobbiamo combattere perché non si accettano ricatti, la politica dei dazi è una politica sempre sbagliata e nel frattempo dobbiamo combattere la contraffazione alimentare. Esportiamo 42 miliardi l’anno, ma subiamo un furto di identità di prodotti per 100 miliardi di euro». Per questo, ha concluso Bellanova, «serve una campagna di comunicazione per far capire ai cittadini americani che i dazi di Trump rischiano di privarli della qualità dei nostri prodotti».
A sostegno della Digital tax, ieri, è giunta anche la presa di posizione di Iab Italia – l’associazione che rappresenta oltre 180 operatori della pubblicità online – per ribadirne, al Governo italiano, l’importanza strategica. «La Digital Tax – spiega Iab Italia – non è stata concepita per discriminare i colossi del web americani, ma per riequilibrare l’assetto concorrenziale del mercato. Il digitale vale più di 65 miliardi di euro. Solo il digital advertising ne vale oltre 3 miliardi, ma è per il 76% nelle mani di operatori che possono contare su ingenti risorse finanziarie derivanti da un gettito fiscale pari a nulla. La “discriminazione”, semmai, è verso le nostre aziende e non verso quelle americane». Secondo una recente analisi di Mediobanca, nel 2018, i “big” del web e del software, con una filiale nel nostro Paese, hanno lasciato al fisco italiano appena 64 milioni di euro.
Fonte: Il Sole 24 Ore