Grazie all’Aglio di Voghiera DOP, in dieci anni si è innescata una piccola grande rivoluzione economica. E’ iniziato uno sviluppo di qualità in quattro paesi del ferrarese: Voghiera, Masi Torello, Portomaggiore, Argenta (qualche ettaro si coltiva anche a Ferrara).
Tutto inizia nel 2007 quando arriva il timbro della Ue, provvisorio poi definitivo dal 2010, che dà il via libera alla denominazione di origine del prodotto. Stop alla vendita sui campi, nascono le prime aziende di lavorazione, confezionamento, distribuzione e commercializzazione. Si crea la filiera. Il prezzo, rispetto alla concorrenza, schizza di un buon 30%, e l’aglio viene inserito nei prodotti di pregio della grande distribuzione e conquista gli chef più rinomati. Oggi si contano 44 aziende che coltivano fino a 130 ettari.
La tradizione secolare acquista valore e parte l’innovazione con nuovi prodotti: i paté, l’olio aromatizzato, i sottoli con aglio e cipolla o aglio e pepe. Fino all’ultimo nato: l’aglio nero fermentato. A prova di bacio, zero alitosi. Novità concepita dalla startup Nero Fermento che ha introdotto il prodotto destinato a sdoganare il consumo dell’aglio tra chi non ama gli effetti collaterali.
La descrizione del Nero di Voghiera sembra quella di un vino pregiato: “Ha un retrogusto di liquirizia e aceto balsamico. Il comune aroma intenso e pungente si trasforma in un sapore più morbido e delicato, la consistenza degli spicchi e più tenera e migliora la digeribilità”. Qualità elencate dall’ingegnere Tommaso Pavani che insieme ai soci Chato della Casa, Stefano Silvi, Gian Paolo Barbieri, Davide Bersani ha permesso la sinergia tra un’azienda agricola e una cooperativa di ricerca nel campo dei processi biofermentativi. L’imprenditore spiega anche metodo e proprietà: “Il processo fermentativo a cui viene sottoposto ne determina un minore contenuto di allicina e una maggiore concentrazione di antiossidanti rispetto all’aglio tradizionale”.
L’innovazione in nero deve ancora conquistare il gusto dei consumatori. Quello bianco c’è riuscito. Con successo. Sono arrivati dal Giappone, in particolare dopo il disastro nucleare di Fukushima, e dagli Stati Uniti a richiederne in quantità. “Volevano un certo numero di container, ma non riusciamo a rispondere a questa domanda spiega Neda Barbieri, la presidente del consorzio di tutela . Ci teniamo a rifornire il mercato nazionale che è già deficitario. Si importa dall’estero, in particolare dalla Spagna dove hanno scelto la quantità”.
Fonte: Corriere Imprese