Per proteggere le nostre imprese e ridimensionare il fenomeno della contraffazione servono nuovi strumenti.
In questi anni istituzioni, imprese e associazioni di produttori si sono battuti come leoni, investendo importanti risorse, nei Paesi stranieri per la tutela del Made in Italy, soprattutto quello agroalimentare. Battaglie lunghe sia quelle sul piano politico attraverso gli accordi commerciali bilaterali o multilaterali, sia quelle giudiziarie nelle aule di tribunale di mezzo mondo. In alcuni casi i risultati sono stati sorprendenti come quelli ottenuti di recente in Germania dal Consorzio dell’Aceto Balsamico di Modena IGP che, come ricorda il direttore Federico Desimoni, riconoscono la non genericità del termine balsamico e che consentono quindi al vero prodotti italiano di non avere concorrenze sleali negli scaffali della GDO tedesca.
In altri casi i risultati sono stati deludenti come quelli che provengono dal Nord America dove le potenti lobby dei produttori locali hanno fatto muro alle richieste di molti consorzi di tutela italiani, sia sul fronte politico che su quello legale, grazie a investimenti milionari a sostegno della genericità di nomi come Asiago, Gorgonzola, Parmesan che in realtà sono facilmente riconducibili al nostro Paese.
Nuovi strumenti di tutela
Il boom del Made in Italy, diventato ormai un cult in tutte le alimentazioni del mondo, ha ingigantito i fenomeni di contraffazione e “italian sounding” in tutti i Paesi. Non c’è supermercato o catena di ristorante che non presenti nella propria offerta i prodotti del nostro Paese. Da un’analisi di un recente studio di Federdoc si evidenzia il caso del Prosecco che, a fronte di una crescita esponenziale di vendite, ha visto anche il moltiplicarsi dei falsi. “La più rilevante denominazione enologica italiana – ha affermato il Presidente del Consorzio di tutela della DOC Prosecco, Stefano Zanette – proprio in queste settimane è stata oggetto di significativi fenomeni di contraffazione sul mercato americano, dove alcune produzioni di Prosecco non provenienti dallo specifico territorio di produzione riportavano addirittura la dicitura denominazione di origine controllata e Made in Italy. Mai successo prima”.
E allora cosa fare per proteggere le nostre imprese agroalimentari che nel solo mercato nordamericano – dati di una ricerca KPMG per Federalimentare – esportano cibi per 3 miliardi di euro e perdono un potenziale legato ai prodotti sounding o contraffatti di 27 miliardi di euro? Una cosa è certa: sono necessari nuovi strumenti che affianchino quelli che con grande sforzo hanno fino ad ora messo in campo consorzi ed imprese. Strumenti in grado di soddisfare, ad esempio, quei 9 consumatori su 10 che, secondo Nomisma, sarebbero interessati all’utilizzo di sistemi in grado di identificare l’autenticità dei prodotti acquistati.
Misleading: inganno al consumatore
Come ha dichiarato la commissaria al Commercio UE Cecilia Malmstrom, per l’Europa rimane fondamentale in tutti gli accordi bilaterali in corso – TTIP compreso – il riconoscimento politico delle indicazioni geografiche, fermo restando che per tutelarsi c’è anche la via dei tribunali, specialmente quando serve a garantire i consumatori.
Con l’obiettivo di trovare soluzioni ad un problema sistematico, il Consorzio del Parmigiano Reggiano mette sul piatto gli esiti di una ricerca (sviluppata da Aicod) che evidenzia, oltre al danno per i produttori italiani, la situazione ingannevole che pesa sui consumatori del mercato americano. I dati dell’indagine non lasciano dubbi al proposito. Per il 66% dei consumatori statunitensi, infatti, il termine parmesan non è affatto generico – come sostengono, invece, le industrie casearie americane – ma identifica un formaggio duro con una precisa provenienza geografica, che il 90% degli intervistati indica senza alcun dubbio nell’Italia. Due terzi dei consumatori USA, in sostanza, sono vittime di un’etichettatura ingannevole. “Lo studio realizzato – afferma Riccardo Deserti, Direttore del Consorzio – ci apre una nuova prospettiva per la difesa del Parmigiano Reggiano negli Usa, oggi abbiamo elementi oggettivi a sostegno della non genericità del nome parmesan, e dell’assoluta ingannevolezza dell’uso di simboli e elementi evocativi dell’Italia”..
Il caso Beck’s beer
Un nuovo punto di vista nel contrasto alle pratiche ingannevoli legate alla provenienza dei prodotti agroalimentari è rappresentato dalla recentissima pronuncia di un giudice federale di Miami che ha condannato (per la precisione si è trattata di una transazione con i consumatori autori di una class action) l’azienda titolare del marchio Beck’s per indicazioni ingannevoli in etichetta. L’azienda ha venduto per anni sul mercato statunitense, ad un prezzo più alto rispetto a quello proposto in media per le birre domestiche, quella che veniva descritta come una birra di qualità “made in Germany” ma che, di fatto, è prodotta da tempo integralmente nel Missouri con l’impiego di ingredienti locali. “Il caso Beck’s – ha dichiarato Pier Maria Saccani, Segretario Generale di Aicig e autore di uno studio sul caso – costituisce una novità strategica fondamentale che avrà ripercussioni nei rapporti tra Europa e Stati Uniti soprattutto sul tavolo negoziale TTIP. Il diritto anglosassone è molto sensibile alla tutela dei consumatori ed alla trasparenza delle informazioni in ambito pubblicitario. Nell’accordo transattivo derivato dalla pronuncia in parola, vengono fatti diversi riferimenti alla provenienza territoriale, all’importanza delle materie prime ed alla lavorazione, tutte caratteristiche insite nel sistema DOP e IGP comunitario”.
Spostare l’attenzione sulla difesa del consumatore potrebbe quindi essere il modo di sostenere il sistema dei Consorzi di tutela delle Indicazioni Geografiche italiane, che costantemente sono costretti ad intraprendere cause ai quattro angoli del mondo con costi elevatissimi ed esiti a volte incerti, come riportato nell’infografica.
Anche lo stesso Paolo de Castro – relatore permanente Comagri sul TTIP – ha dichiarato: “La class action mostra una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori statunitensi, sempre più attenti a ricevere informazioni corrette e trasparenti su ciò che mangiano e bevono. Sicuramente questa esperienza può fornire una pista aggiuntiva ai normali canali e rappresenta un modello replicabile per contrastare legalmente l’Italian sounding e i fenomeni di accertata contraffazione di prodotti alimentari certificati”.
Il caso Beck’s, primo caso di germany sounding, rende chiaro un concetto: far pagare un prezzo premium per un prodotto di cui si evoca, attraverso dei simboli e senza una ragione reale, un’origine geografica equivale ad un’appropriazione indebita di valore. Questo aspetto così concreto può rappresentare una spinta in più per facilitare l’inserimento nei negoziati e nelle controversie giudiziarie dell’obbligatorietà di specificare ai produttori americani se un prodotto è realizzato negli Stati Uniti o se è realmente italiano. In buona sostanza questo caso apre “una terza via” per eliminare tutte le false evocazioni visive e promuovere un sistema di etichettatura immediata e trasparente che faccia capire chiaramente le origini del prodotto. Un primo passo positivo e stimolante, perché più saremo in grado di offrire elementi oggettivi e verificabili, più sarà efficace la difesa delle nostre eccellenze agroalimentari. Una cosa è certa: per portare avanti azioni del genere c’è bisogno di innalzare il livello degli strumenti di tutela e soprattutto di un pieno appoggio dello Stato.
Mauro Rosati
Direttore Generale Fondazione Qualivita
Fonte: L’Unità – Terra e Cibo