Oltre ad essere uno dei simboli del nostro paesaggio italiano e svolgere un ruolo fondamentale nell’economia della montagna, il castagno è forse la pianta più multifunzionale dell’agricoltura; il suo legno si presta agli usi più svariati (ricco di tannino, resistente, di lunga durata, buono per la costruzione di travi, mobili e infissi) mentre con i suoi frutti possiamo preparare pietanze che vanno dall’antipasto al dolce. Per questi motivi è da sempre chiamato “albero del pane”.
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Necessarie misure per rilanciare il settore
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A partire dai primi anni 2000, il cinipide o vespa cinese, un imenottero parassita originario dell’Asia, si è diffuso in maniera massiccia sul nostro territorio, provocando un grave deperimento delle piante di castagno. Una situazione che i numeri rendono molto esplicita: dal 2008 al 2013 la produzione italiana è calata di circa il 50% passando da 55.000 tonnellate ad una quota sotto le 30.000, senza contare il 2014, per il quale, sebbene in mancanza di dati ancora certi, le percentuali, secondo gli esperti del settore, sono addirittura peggiori di quelle degli anni precedenti.
L’Italia, da sempre uno dei maggiori paesi produttori e trasformatori della castagna, ha subito un serio contraccolpo non soltanto economico, ma anche sociale ed ambientale; come in un effetto domino, con la scarsa produttività dei castagni è venuto meno il reddito di molte popolazioni che abitavano in zone svantaggiate, il che ha determinato lo spopolamento e l’abbandono di parti imponenti di bosco, che ha causato a sua volta il conseguente dissesto idrogeologico.
La lotta biologica
Arrivato in un vivaio del Piemonte nel 2002 che aveva acquistato delle pianti da innesto nippo-cinesi, il cinipide si è rapidamente diffuso in tutta la penisola. Alla propagazione non hanno fatto sempre riscontro tempestive azioni coordinate da parte di tutte le Regioni, ritardi che, insieme ad una sbagliata convinzione che i prodotti chimici di sintesi fossero la strada migliore per liberarsi da questo parassita, hanno determinato una vera e propria strage di castagni. A partire dal 2010, con il “Piano di settore castanicolo” elaborato dal Ministero delle Politiche agricole nell’ambito del Tavolo di filiera, con la Conferenza Stato-Regioni si sono messe nero su bianco tutta una serie di indicazioni compresa quella per la lotta biologica alla vespa cinese. Attraverso l’inserimento nell’ecosistema dell’antagonista naturale del cinipide, un imenottero chiamato torymus, nel giro di pochi anni le condizioni sono molto migliorate.
[blockquote size=”fourth” align=”left” byline=”] Serve consapevolezza del valore ambientale, sociale ed economico della castanicoltura [/blockquote]
Grazie all’importante lavoro dell’Università di Torino e alla gestione da parte del Crea (ex Cra), il progetto finanziato dal Mipaaf ha prodotto risultati significativi che nel giro di breve tempo hanno fatto vedere i propri effetti positivi.
Quest’anno le nostre castagne di eccellenza DOP IGP, qualitativamente senza pari nel mondo, tornano a riaffacciarsi sul mercato dopo un periodo di produzione tendente allo zero. “La migliore testimonianza della rinascita – raccontano dall’Associazione dei produttori dei Marroni del Monfenera IGP – oltre che dai marroni, arriva dalle api, che hanno ripreso a produrre miele derivato dal castagno, confermando come le piante stiano tornando in forma”. La ripresa, però, resta a macchia di leopardo; in primis perché non tutte le regioni hanno abbandonato la lotta chimica a favore di quella biologica, ritrovandosi in tal modo a danneggiare i castagni più di quanto faccia il cinipide; in secondo luogo i lunghi anni della patologia importata e il conseguente abbandono dei castagneti, unitamente allo scenario di cambiamento climatico globale, hanno indebolito fortemente le piante di castagno. L’ecosistema castanicolo ha subìto così una perdita di resilienza, aprendo lo spazio a nuove emergenze patologiche tutt’ora in corso.
I distretti
A pagare i conti più salati sono stati i distretti di eccellenza come quello Campano – con la zona di Montella – quello Piemontese e quello Toscano del Monte Amiata e del Mugello, la cui economia è fortemente vocata alla castanicoltura. Questa crisi, tuttavia, ha interessato tutta la filiera castanicola italiana, un patrimonio storico del nostro settore primario già afflitto da alcune problematiche di sviluppo. Costituita da circa 30.000 aziende che trasformano e commercializzano il prodotto sui mercati nazionali ed esteri, da un’offerta frammentata fatta da imprese di piccole dimensioni e dalla presenza di numerosi intermediari, la filiera ha bisogno di trovare una nuova spinta per rilanciarsi.
Se qualcuno aveva pensato che la certificazione di prodotto DOP IGP del fresco potesse in qualche moto risolvere e sviluppare un’economia castanicola più vigorosa nei vari territori, si era sbagliato di grosso. I dati di produzione certificata sono impietosi: pochissimi i quintali certificati in questi anni, in cui a preoccupare è soprattutto un lento e progressivo abbandono dal sistema da parte degli operatori.
Per il rilancio, i nostri distretti castanicoli partono comunque da un grande vantaggio rispetto ai competitor stranieri: la qualità della castagna italiana, con oltre 300 varietà di frutti (fra i quali i famosi marroni) ed il know-how delle imprese di trasformazione. Occorre quindi abbinare tutto questo ad investimenti in ricerca ed innovazione di impianti.
Territorio e multifunzionalità
La perdita di produzione ha portato l’Italia, dopo anni come primo paese esportatore di castagne, ad essere uno dei principali importatori: tra il 2010 e il 2013 si è registrata una diminuzione del 28% delle tonnellate esportate, mentre dal 2012 l’import è cresciuto del 116%. L’aggressività di altri Paesi come Cina e Turchia, che immettono sul mercato grandi quantità di prodotto a bassa qualità, ci spinge verso una guerra di prezzo che non può far bene a nessuno dei settori del made in Italy agroalimentare, tantomeno a quello delle castagne. E soprattutto immette sul mercato tanti falsi, con prodotti importati e poi etichettati come italiani.
Per questo motivo uno dei punti da cui far ripartire il settore potrebbe essere lo sviluppo della castanicoltura nella sua piena multifunzionalità e come elemento di un sistema territoriale che include proposte paesaggistiche, culturali, sociali, economiche, ricreazionali, produttive e di tutela e protezione dell’ambiente.
Dopo la lotta al cinipide emerge forte la necessità di ricominciare agendo su più fronti. Il sistema pubblico, soprattutto attraverso le Regioni e i Piani di Sviluppo Rurale, deve finanziare la ricostruzione dell’ecosistema castanicolo e far da guida per attuare una strategia di corretta coltivazione e cura dei castagneti a cui, dopo gli ultimi anni, bisogna restituire ‘nutrimento’ affinché si torni all’efficienza produttiva delle condizioni naturali pre-cinipide.
Anche le aziende devono cambiare; vanno superati i fattori problematici quali l’assenza di innovazione, la scarsa propensione a fare sistema, la bassa redditività, la distanza dai giovani e la mancanza di integrazione con la trasformazione. Ma soprattutto non è pensabile abbandonare la strada della qualità che da sempre ha contraddistinto questo settore. In questi anni non ha giovato l’approccio sbagliato di molte imprese che lo hanno considerato sempre come una filiera minore solo da reddito complementare. Ormai l’agricoltura è un comparto economico maturo che non ammette approcci dilettanteschi. Le organizzazioni dovrebbero aiutare il cambiamento su questo versante perché il castagno non sia solo il “pane dei poveri”.
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Mauro Rosati
Direttore Generale Fondazione Qualivita[/column]
Fonte: L’Unità – Terra e Cibo
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