Sette
L’unico italiano a non essersi lamentato dell’estate fredda e troppo piovosa è il Fagiolo di Lamon della Vallata Bellunese IGP: per il legume della vallata bellunese si prospetta infatti un’annata migliore rispetto alle precedenti. Fortuna meteorologica che si assomma alla buona stampa: il fagiolo è vegano e dunque di moda, è gluten-free e dunque bipartisan, è fotogenico e dunque si presta a essere immortalato dagli smartphone e postato sui social media. Inoltre è un Super Food – come vengono definiti i cibi che fanno bene alla salute -, in particolare utile per la prevenzione di alcuni tumori e delle malattie cardiache. Infine è economico, il che, ai tempi della Grande Crisi, lo rende iconico, se vogliamo sfruttare un termine in auge nel mondo della moda. Prima di diventare il prodotto preferito persino dalle star convertite alla cucina (Gwyneth Paltrow ha postato decine di ricette a base di fagioli nel suo blog Goop. com), il fagiolo era un cibo plebeo, di quelli adatti più a combattere la fame che a solleticare l’appetito. Data la diffusione capillare dei fagioli nell’alimentazione regionale del nostro Paese, i ricettari della storia della gastronomia italiana non li sottovalutano e ne riportano varie ricette e interpretazioni. Dopo le grandi cucine conventuali, dove, intorno alla fine del primo millennio, era tutto un ribollire di zuppe, anche i ricettari rinascimentali ospitano i fagioli. Christofaro di Messisbugo, scalco (cioè sovrintendente delle cucine) presso gli Este nel Ducato di Ferrara, nel suo Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivande secondo la diversità de i tempi così di carne come di pesce del 1549, spiega che i fagioli non devono mai mancare nella dispensa del palazzo e illustra il procedimento per la torta di fava, o fasoli, o cipolle. Anche Bartolomeo Scappi, scalco alla corte papalina di Pio V, nella sua Opera del 1570 dedica varie pagine ai fagioli, sia secchi sia freschi, spiegando passo passo le ricette per «Far tortelletti di fagioli freschi» o «Far minestra di fagioli secchi». Nel 1644, il medico Vincenzo Tanara, in Economia del cittadino in villa, impartisce dettagliate indicazioni sulla coltivazione dei fagioli e sulla loro conservazione. In questo elenco di storici ricettari, poteva mancare il libro fondativo della cucina dell’Italia unita, quello che oltre a diffondere e miscelare le ricette e i prodotti regionali propagò l’uso della lingua italiana nelle case e nelle cucine dell’intero Paese? Ebbene, Pellegrino Artusi, nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene del 1891, descrive così i fagioli, caratteristici della cucina regionale di buona parte della neocostituita Italia: «Sono la carne del povero, e infatti quando l’operaio frugandosi in tasca vede con occhio malinconico che non arriva a comprare un pezzo di carne bastante per fare una buona minestra alla famigliola, trova nei fagiuoli un alimento sano, nutriente e di poca spesa».
La carne dei poveri che è diventata un cibo alla moda