L’anno scorso l’Italia è diventata per la prima volta “esportatore netto” coronando una rincorsa iniziata dieci anni fa. Gennaio è stato fiacco, spiega il centro studi Cia, ma le mosse di Biden sui dazi e la ripartenza promettono bene per l’export agroalimentare italiano.
Una partenza molto incerta nel 2021, ma che permette all’export agroalimentare italiano di mantenere comunque il vantaggio acquisito nel 2020, e cioè una bilancia commerciale in attivo. Infatti le esportazioni italiane di cibo e bevande, per quanto in calo del 5 per cento, superano comunque le importazioni per 139 milioni di euro, rileva l’Istat.
Infatti l’import ha subito una contrazione anche maggiore, del 15 per cento. «È un campanello d`allarme – ammette Marco Barbetta, responsabile dell`Ufficio Studi della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) – ma in fondo si tratta solo di un mese, ed è da anni che le esportazioni continuano a crescere». E infatti è proprio questa tendenza che ha permesso all’Italia di diventare nel 2020 “esportatore netto“, con un surplus della bilancia commerciale di 3 miliardi di euro, un salto in avanti enorme se si considera che solo nel 2011 fa il nostro Paese era ancora in deficit per 10 miliardi.
Adesso, sottolinea il presidente di Cia Dino Scanavino, «per preservare e rilanciare il Made in Italy agroalimentare sui mercati europei e internazionali sicuramente serve un grande piano di promozione, strategie innovative e sempre più focalizzate sui canali digitali, ma soprattutto, in questa fase di crisi globale, è sempre più urgente favorire tra i Paesi accordi commerciali multilaterali e bilaterali».
Che gli accordi siano estremamente funzionali all’export lo dimostrano anche i dati: a gennaio il Giappone, forte degli effetti del JEFTA, il trattato siglato quasi due anni fa con l’Unione Europea, fa un balzo del 7,7 per cento come mercato di sbocco dei prodotti agroalimentari Made in Italy. Mentre arretrano i principali Paesi acquirenti: la Gran Bretagna, complice anche le difficoltà legate alla Brexit oltre che quelle derivanti dalla pandemia, perde oltre un quarto di export italiano (meno 27,8 per cento). Gli Stati Uniti arretrano del 17,4 per cento, la Francia del 10,5 per cento, la Germania tiene un po’ meglio ma perde comunque l’1,5 per cento sullo stesso mese del 2019.
Eppure, almeno con gli Stati Uniti, gli scambi nei prossimi mesi dovrebbero andare meglio, dal momento che il nuovo presidente Joe Biden ha sospeso per quattro mesi tutti i dazi che hanno origine dalla controversia Airbus-Boeing, che si trascinano da 17 anni. Una boccata di ossigeno per le nostre esportazioni anche se, precisa Marco Barbetta, «i prodotti italiani si erano in parte salvati, i vini in particolare erano usciti dalla black list, solo i formaggi erano stati particolarmente penalizzati».
Adesso si apre però una grande opportunità di ritorno al dialogo e agli scambi commerciali ancora di più su larga scala, considerato che gli Stati Uniti sono il nostro terzo mercato di riferimento per l’agroalimentare dopo Germania e Francia e prima del Regno Unito, con una quota che supera leggermente il dieci per cento. Poi, certo, ci sono anche i mercati emergenti, tra cui la Cina, che pur avendo messo a segno nel 2020 un forte balzo in avanti (più 16,3 per cento su base annua nell`analisi dell’Ismea) rimane ancora un`opportunità da cogliere, per esempio per prodotti come i vini, che in Giappone si vendono benissimo, ma che soffrono della concorrenza francese.
Ma cosa esportiamo soprattutto all’estero? Il vino primeggia quasi ovunque, per esempio negli Stati Uniti copre una quota del 30 per cento delle esportazioni. Ma in realtà se si guarda ai dati complessivi del 2020 al primo posto ci sono cereali, riso e derivati. Dopo il vino arrivano la frutta fresca e trasformata, e poi gli ortaggi, seguiti da latte e derivati, carni, bevande e oli.
Nel 2020, osserva Barbetta, sono stati privilegiati i prodotti che potevano essere facilmente acquistati nei supermercati, mentre hanno sofferto quelli maggiormente di alta gamma, che venivano piuttosto consumati nei ristoranti o in occasioni di feste e incontri. E quindi, rileva in dettaglio uno studio di Ismea, si sono vendute di più le paste alimentari, i pomodori trasformati, le mele, l’uva da tavola, il kiwi e l’olio d’oliva; vini e formaggi stagionati hanno subito una contrazione.
Ma il Covid non ha fermato la corsa dell’agroalimentare italiano: negli ultimi dieci anni le vendite estere agroalimentari Made in Italy sono aumentate del 66 per cento, mentre le importazioni sono cresciute in maniera decisamente più contenute (18 per cento). È questo trend che ha permesso il “sorpasso” nel 2020 dell’export sull’import, nonostante tutte le difficoltà legate alla pandemia. Adesso l’augurio è che l’export italiano nei prossimi mesi si rimetta sui binari. Dopotutto, nonostante i dazi, e la Brexit, e la pandemia, nel 2020 agli affari con i partner principali sono cresciuti, solo con la Francia si è registrata una lieve contrazione sui dodici mesi.
Fonte: Affari e Finanza – La Repubblica