Rubrica di approfondimento sulle filiere produttive DOP IGP STG, con il contributo di un esperto del settore attraverso dati e numeri aggiornati, analisi sui punti di forza e le criticità del comparto, l’evoluzione e le prospettive per gli operatori.
In questo numero – a cura dell’Ismea – un’analisi sulla filiera dell’olio extravergine di d’oliva certificato DOP IGP.
L’olivicoltura italiana, nell’ambito dell’agrifood nazionale e internazionale, rappresenta un’eccellenza, non solo per gli elementi di qualità espressi dalla filiera produttiva, ma anche per il consistente portato di aspetti culturali, di tradizione e territorio che il prodotto esprime. A fronte di questo patrimonio di va lori immateriali, la filiera non sembra essere riuscita a individuare un percorso di valorizzazione complessiva del prodotto rimanendo spesso schiacciata tra la scarsa capacità organizzativa della filiera stessa e, da un lato, le politiche commerciali della Grande Distribuzione e, dall’altro, la competizione internazionale. La produzione mondiale di olio d’ oliva è fortemente concentrata nel bacino del Mediterraneo e, in particolare, in Spagna e Italia, paesi che rappresentano anche la quasi totalità delle esportazioni mondiali (60% la Spagna e 20% l’Italia). Ma i segnali che arrivano sono quelli di una “sponda Sud” in crescita quantitativa e qualitativa così come l’ estendersi della produzione e, quindi, del consumo ad altre aree del Globo come gli USA, l’Australia, il Sud Africa. Si tratta di un segnale importante che può fornire un’indiretta misura della lenta ma graduale crescita del mercato mondiale dell’olio d’oliva anche al di fuori dei tradizionali paesi. D’altro lato, il fatto che l’olio d’oliva rappresenti attualmente circa il 4-5% del consumo di materie grasse a livello mondiale e che sia una delle poche materie grasse alimentari al cui consumo siano legati oggettivi e riconosciuti benefici dal punto di vista della salute, consente di immaginare che tale trend possa non solo confermarsi ma addirittura accelerare nei prossimi anni. Sul fronte dei numeri mossi dal settore a livello nazionale, si stima che, al netto delle imponenti oscillazioni che hanno contrassegnato l’ultimo qu inquennio produttivo, l’attuale valore alla produzione agricola dell’olio d’oliva si aggiri intorno a 1,3 miliardi di euro – circa il 3% del valore prodotto dal settore primario – mentre il fatturato industriale vale circa 3,2 miliardi di euro.
Un piccolo approfondimento su questi “grandi numeri” evidenzi a tuttavia che solo la metà delle aziende agricole che possiedono oliveti sono specializzate e solo una porzione di queste possa essere considerata competitiva possedendo una gestione imprenditoriale e un a dimensione atta ad affrontare il mercato; così come, osservando l’attività dei frantoi, emerge che il 72% di essi molisce meno di 5.000 quintali di olive all’anno. La frammentazione produttiva che caratterizza tutto il tessuto imprenditoriale italiano e quello agricolo in particolare, assume quindi dimensioni ancora più critiche nel settore olivicolo dove una gran parte di olive ti è gestita secondo criteri hobbistici la cui produzione è in gran parte destinata all’autoconsumo. A fronte di un crescente interesse mondiale sul prodotto, di una domanda interna ben superiore all’offerta, di alcune aree interne del Paese caratterizzate da una chiara vocazionalità olivicola, il settore fa fatica ad agganciare il treno della modernità ed è costretto a rincorrere, senza avere elaborato una propr ia e specifica strategia unitaria, sistemi olivicoli più moderni come Spagna, Portogallo e anche Nord Africa che stanno, invece, cominciando ad esprimere realtà interessanti anche sul fronte della qualità ma, soprattutto, delle capacità commerciali.
Se questo è vero in generale, è altresì innegabile che in molte delle aree vocate sono riscontrabili spesso realtà produttive di eccellenza non solo in ambito locale ma anche nazionale e internazionale. Queste, tuttavia, non hanno spesso ancora avuto la forza di innescare progetti di sviluppo territoriale più rilevanti e trascinare territori più ampi verso ottimi organizzativi. Piuttosto, molto spesso, a fronte di queste punte di eccellenza, si allarga la platea di oliveti condotti in maniera non professionale che, al raggiungimento di un’età tale da impedire la prosecuzione della gestione da parte del titolare o della sua morte, gli eredi non sono in grado e non sono attratti dalla possibilità di gestire. Non è raro assistere così all’abbandono dell’oliveto favorendo il suo graduale processo di transizione verso il bosco.[blockquote size=”fourth” align=”right” ]Attualmente la produzione media di riferimento è di 400.000 tonnellate[/blockquote]Ecco in parte spiegato anche il processo di tendenziale riduzione de lla produzione che nell’ultimo de cennio ha interessato la produzi one di olio italiana. Fino a circa 10 anni fa, infatti, questa si aggirava attorno alle 600.000 tonnellate; at tualmente, la produzione media di riferimento può essere considerata di circa 400.000 tonnellate con oscillazioni che, in basso, nel 2016 sono arrivate a 222.000 tonnellate ne l 2014 e 182.000 tonnellate nel 2016.
Queste imponenti oscillazioni al ribasso non solo sono indice della forte esposizione della coltura agli attacchi parassitari e alle condizioni climatiche avverse ma anche di come il forte peso dell’approccio non professionale alla coltura renda ancora più difficile porre un efficace contrasto alle situazioni critiche. I dati mettono quindi a nudo che la domanda interna di olio d’oliva è ampiamente superiore all’offerta. Nell’ultimo quadriennio, che incorpora anche le due pessime annate de l 2014 e del 2016, l’import di olio d’oliva ha sfiorato in media le 590 mila tonnellate per ogni anno de terminando così uno sbilancio commerciale che, nel 2017 ha toccato il massimo valore di 402 mili oni di euro, in un settore in cui l’ Italia rappresenta comunque il massimo della qualità, oltre che il secondo esportatore mondiale. Messo in chiaro il rapporto tra produzione e commercio con l’estero, appare evidente come una quota molto importante di olio d’oliva consumato in Italia ed esportato all’estero sia quindi costituito da blend di oli nazionali e esteri. Non potrebbe essere altrimenti per un comparto in cui, negli ultimi anni, il tasso di autoapprovvigionamento, ovvero la capacità di coprire i fabbisogni con la produzione interna, è oscillato paurosamente tra il 35 e il 90%. Uno degli elementi che contraddi stingue e caratterizza il settore ol ivicolo nazionale è la ricchezza di fattori che ne consentono la differenziazione e ne determinano la fo rte caratterizzazione territoriale. Si potrebbe definire un comparto estremamente “biodiverso”. [blockquote size=”fourth” align=”right” ]L’autoapprovvigionamento è oscillato tra il 35% e il 90% negli ultimi anni[/blockquote]Lo Schedario Olivicolo Nazionale, ovvero il registro delle cultivar riconosciute ufficialmente a livello nazionale registra, infatti, quasi 400 iscrizioni. Se si immaginano le possibili combinazioni di queste varietà e di loro mix con le differenti peculiarità pedoclimatiche del territorio nazionale si apre un’impressionante gamma di diversità che pochi altri prodotti possono offrire. C’è poi da considerare il filone delle produzioni biologiche che, anche in questo comparto, fanno sentire il loro peso. Infatti, il 12,4% della su perficie biologica italiana è destinata alla coltivazione dell’olivo il che implica che, il 21% dell’intera su perficie olivicola italiana (32% in Puglia, 31% in Calabria, 14% in Sicilia, 7% in Toscana) è certificata se condo questo regime comunitario di qualità. Si tratta di un’ulteriore opportunità di affrontare un mercato in crescita rilevante in questi ultimi anni.
A cura di Fabio Del Bravo (Ismea)
Fonte: Consortium 2018/00