Italia è famosa nel mondo per il cibo, la moda e la meccanica fine. Ma se le ultime due industrie stanno soffrendo per gli strascichi del coronavirus, l’alimentare non è mai stato così appetibile per gli investistori. «Il settore del food and bevarage italiano è per definizione uno dei comparti a maggior vocazione internazionale – spiega Alberto Gennarini, partner di Vitale & Co., banca d’affari che nel 2020 ha già firmato 8 operazioni di M&a nel settore alimentare – e quelle aziende che distribuiscono i suoi prodotti tipicamente attraverso la grande distribuzione, quest’anno hanno registrato incrementi di fatturato a due cifre, ma in generale hanno dimostrato di avere una grande resilienza alla crisi». Farine, lieviti, legumi, pasta e sughi tra marzo e aprile hanno aumentato le vendite fino al 40%; non c’è da stupirsi, quindi, se i private equity sono alla ricerca di marchi su cui investire. Gli ultimi due sono la napoletana Nappi – ingredienti per pasticcerie e gelaterie, nel mirino di Stirling Square, Riverside e Blue Gem – e la pavese Roscio, che produce pasta fresca, lasagne e gnocchi ed è stata adocchiata dal fondo Idea Taste of Italy.
Attraverso Clessidra, il gruppo Italmobiliare – che ha già puntato sul caffè Borbone – sta per investire sulla casa vinicola veneziana Botter, messa in vendita dalla famiglia e da Idea Taste of Italy, mentre il fondo Peninsula ha cercato di entrare in Illy Caffè. L’azienda triestina a sua volta cerca partner per aprire negozi negli USA e per la sua divisione di marchi di eccellenza, come il cioccolato Domori.
«Con la grande liquidità che c’è sui mercati – prosegue Gennarini – i private equity sono a caccia di investimenti, e il bello delle aziende alimentari è che possono ancora spuntare multipli di mercato interessanti». La Newlat della famiglia Mastrolia in pieno Covid è riuscita a portare avanti l’Offerta pubblica di acquisto e scambio sulla Centrale del Latte d’Italia (padrona del latte fiorentino Mukki e del torinese Tapporosso) e adesso che l’offerta è finita con successo, raccogliendo il 67% delle adesioni, si prepara a nuove acquisizioni. «Newlat è un caso di scuola di cui abbiamo discusso anche in Bocconi – prosegue l’esperto di Vitale – è stata la prima operazione di M&A gestita tutta da remoto a causa del virus, e la dimostrazione che per i progetti interessanti il mercato c`è anche nei momenti peggiori. Angelo Mastrolia è poi il tipico imprenditore che si è fatto da solo e spinge sulla crescita, tanto da ripetere sempre che è meglio avere una piccola quota di Nestlé che il 100% della Newlat».
Il problema e il bello delle aziende alimentari è che, essendo per lo più familiari, tendono a rimanere di piccole dimensioni, e anche i big come Barilla e Ferrero preferiscono restare fuori dalla Borsa. Inoltre gli imprenditori hanno dimostrato di saper andare all’estero, costruendo stabilimenti in tutto il mondo, come ha fatto la pasta Giovanni Rana, che sta raddoppiando la capacità produttiva negli Stati Uniti, in breve tempo diventati il maggiore mercato di sbocco. «Date le restrizioni sulle importazioni di insaccati, nel 2015 i Beretta hanno costruito in soli 11 mesi uno stabilimento di salami negli Stati Uniti, investendo 65 milioni di dollari – ricorda Gennarini; – oggi generano 200 milioni di dollari di ricavi».
Se le famiglia italiane sembrano ancora allergiche ai mercato dei capitali, con l’andare avanti delle generazioni, aumentano le chance che cambi la mentalità. Del resto lo stesso Luca Garavoglia di Campari, dopo le perplessità iniziali, è solito ripetere che la quotazione è stata una grande esperienza per l’azienda, che la scorsa settimana ha sorpreso in positivo il mercato con i risultati semestrali. «Per chi come Campari è esposto anche sul canale bar, il lockdown è stato un grosso freno – spiega l`esperto di Vitale -. Anche il colossi come il tedesco Metro o l’italiana Marr hanno bruciato due quinti della capitalizzazione per colpa del virus. Tuttavia se il retail alimentare soffrirà ancora per alcuni mesi, nascono anche nuove forme di business, come le dark kitchen, ovvero “cucine” prive di ristorante, che producono per la sola consegna a domicilio, o esperienze di insegne di lusso come Giacomo o Langosteria, che ora utilizzano con grande successo le consegne a domicilio».
Del resto all’interno della vasta categoria della ristorazione si stanno creando figli e figliastri. Soffrono i punti ristoro come Autogrill, Piadineria, Old Wild West, che puntavano su studenti, uffici e pausa pranzo, e quei bar che vivevano di colazioni. Per l’aperitivo e la cena invece bar e ristoranti stanno gradualmente tornando alla normalità. «L’abitudine di fare colazione a casa potrebbe rimanere nei consumatori, determinando una riduzione dei consumi di latte, caffè e prodotti da forno – conclude Gennarini – ma il calo degli affitti delle location della ristorazione, e le difficoltà di alcune insegne specifiche, potrebbe portare a una nuova e salutare ondata di consolidamento nel settore».
Fonte: Affari&Finanza – La Repubblica