Abbasso le tariffe. Ecco la risposta di Unione europea e Giappone a Donald Trump, che nella sua furia protezionista non ha risparmiato neppure loro, gli alleati di sempre. Ieri a Tokyo i leader europei Tusk e Juncker hanno firmato con il premier giapponese Abe il JEFTA, un accordo commerciale che unisce i due mercati nella più grande zona di libero scambio al mondo. Messe insieme le economie di UE e Giappone valgono quasi un terzo del PIL globale e grazie all’intesa, che dopo la rettifica dei Parlamenti dovrebbe entrare in vigore nel 2019, vedranno scendere in progressione i dazi sugli scambi reciproci, fino a cancellarli quasi del tutto nell’arco di quindici anni. Da parte giapponese ne beneficeranno soprattutto i marchi dell’automobile, i cui modelli sono appesantiti da un extra del 10% alla frontiera comunitaria, e da parte europea le industrie alimentare e tessile, sui cui prodotti finora Tokyo imponeva gabelle fino al 30% del valore.
Sono due settori forti del Made in Italy. Anche per questo Movimento 5 Stelle e Lega, che nei giorni scorsi si sono schierati contro il trattato commerciale tra Europa e Canada, il CETA, non hanno avuto nulla di ridire su questo JEFTA. «Conviene ai cittadini italiani e alle imprese», ha scritto sul blog del Movimento l’eurodeputata Tiziana Beghin, salvo spiegare in modo assai vago quali sarebbero le differenze: sia con il Canada che con il Giappone infatti l’Italia vanta un significativo surplus commerciale, che consiglierebbe di lasciar correre quanto più possibile gli scambi. Tant’è.
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Con il JEFTA i dazi su vini, carne di maiale e formaggi freschi europei cadranno subito a zero, quelli sui formaggi a pasta dura (come il Parmigiano Reggiano DOP) scenderanno in progressione. Secondo le stime della Commissione l’export agricolo direzione Oriente dovrebbe addirittura triplicare e quello complessivo, oggi a quota 80 miliardi di euro, aumentare del 13%. Nel complesso le aziende europee vedranno sparire tariffe per circa un miliardo anche su apparecchi medici e prodotti tessili, altri prodotti di punta dell’industria italiana.
Alcuni punti oscuri nell’accordo, che verrà ratificato solo dal Parlamento europeo e non da quelli nazionali, in realtà rimangono. La tutela delle Indicazioni Geografiche tipiche per esempio: ne vengono riconosciute 205 a livello europeo, una minima parte. E poi la richiesta europea di creare specifici tribunali per la tutela degli investimenti, importanti visto che le imprese UE conquisteranno parità di accesso alle gare pubbliche in Giappone. Su questo secondo aspetto Tokyo resiste, ha già le sue corti. Ma nei prossimi mesi non sarà impossibile trovare la quadra, visto l’interesse condiviso di Giappone e Europa, entrambe economie trainate dall’export, a contrastare l’offensiva protezionistica di Trump.
Le trattative sul Jefta, iniziate nel 2013, hanno accelerato all’improvviso lo scorso anno, dopo le prime mosse del neo-presidente americano. Fresco di trasloco alla Casa Bianca, il tycoon ha gelato il Giappone uscendo dall’accordo commerciale Transpacifico negoziato da Obama, intesa che da allora Tokyo sta cercando di salvare con i dieci Paesi superstiti. Né l’Europa si aspettava di essere il bersaglio delle tariffe americane, considerata un «nemico» da punire quanto e più della Cina.
Due giorni fa proprio con Pechino Tusk e Juncker hanno provato a saldare un fronte comune a difesa del multilateralismo. Ma se la volontà della superpotenza comunista di abbracciare il libero mercato (e rompere con Trump) resta sospetta, con il Giappone la convergenza di interessi è più chiara. Aver aperto il mercato dei prodotti agricoli ai concorrenti UE è una beffa ai contadini americani, cuore dell’elettorato trumpiano.
Secondo molti osservatori le stime sull’impatto del JEFTA sono esagerate: difficile, come ha dichiarato Abe, che dia al PIL giapponese una spinta di un punto percentuale. Eppure il messaggio politico, recitato in coro dai leader di Europa e Giappone è chiaro: «Il protezionismo non porta da nessuna parte». La loro idea è che una riforma delle regole del commercio mondiale, a cui entrambi si sono impegnati, potrebbe convincere Trump a deporre le armi e la Cina a non barare più. Ma che possano essere davvero Tokyo e Bruxelles a salvare da sole la globalizzazione, numeri alla mano, è improbabile: per entrambe gli Stati Uniti sono il primo mercato di export, e la Cina il secondo.
Fonte: La Repubblica