Oggi i formaggi della Valtellina sono molto conosciuti nel Nord Italia, poco noti a Sud del Po e quasi sconosciuti all’estero: l’obiettivo è aumentare la visibilità di questi prodotti attraverso il turismo enogastronomico e le campagna di comunicazione dedicate
“Se non avessimo accettato la sfida di ottenere la Denominazione di Origine Protetta, molto probabilmente oggi questi prodotti non esisterebbero quasi più» dice Attilio Tartarini.
Tartarini è l’agronomo valtellinese che trent’anni fa, per conto dell’associazione dei produttori di latte, formaggio e latticini della provincia di Sondrio, ha lavorato perché due delle eccellenze del territorio potessero ottenere la DOP.
Dal 1996 è direttore del Consorzio Tutela Valtellina Casera e Bitto, che quest’anno festeggia i suoi primi venticinque anni di storia. Quando il Consorzio è nato, non erano molti i formaggi ad avere ottenuto la Denominazione di Origine. E non c’erano – ma non ci sono tuttora – Consorzi che rappresentassero due formaggi diversi. Anche se in realtà Bitto e Valtellina Casera sono prodotti “fratelli”: il primo è un formaggio grasso da alpeggio prodotto durante l’estate, quando gli allevatori portano le mucche al pascolo in alta quota, oltre i 1.400 metri di altitudine, mentre il secondo è un formaggio semigrasso da letteria prodotto d’inverno, quando le vacche vengono riportate a fondovalle.
Sono due formaggi antichi. Il Bitto affonda le sue radici nella tradizione celtica di trasformare rapidamente il latte in formaggio, per evitare che vada a male e trasportarlo più agevolmente. Il Valtellina Casera è figlio delle prime latterie turnarie della provincia di Sondrio, che risalgono a cinque secoli fa. Non è stato facile mettere d’accordo allevatori e casari valtellinesi per fissare le regole necessarie per proteggere questi formaggi.
Per il Bitto il Consorzio nascente è dovuto andare a identificare ogni singolo alpeggio ad alta quota. Tutti però hanno capito presto che conveniva collaborare per un obiettivo comune: contrastare le imitazioni (già negli anni `90 spuntavano formaggi importati da fuori e spacciati per valtellinesi) e tutelare il lavoro dei produttori. “Sul prezzo del latte, ad esempio, non siamo mai scesi sotto i 41 centesimi al litro, proponendo sempre un prezzo sensibilmente superiore a quello medio nazionale” spiega Vincenzo Comaggia, che è presidente del Consorzio da 9 anni.
Cornaggia mostra numeri che indicano una crescita impressionante: rispetto a 25 anni la produzione del Bitto è salita del 193% quella del Valtellina Casera del 330%. Sono aumentati anche i soci, da 35 a 165. Oggi Bitto e Valtellina Casera generano un fatturato di 13 milioni di euro che sostiene l’economia della Valle, dando lavoro a 133 allevamenti, 13 caseifici, 16 stagionatoti di Valtellina Casera e 54 alpe: produttori e 10 stagionatori di Bitto.
Nel 2020 la produzione di Valtellina Casera ha superato i 17mila quintali, quella di Bitto è calata leggermente, a quota 2.100 quintali, per un clima più difficile e l’introduzione di misure di controllo più rigide per migliorare il profilo organolettico del formaggio. “Contribuiamo all’economia di un territorio fragile” spiega Comaggia, che non nasconde la preoccupazione per la tra- sformazione del sistema bancario valtellinese, con il passaggio del CreVal al Credit Agricole e l’imminente trasformazione della Banca Popolare di Sondrio in Spa.
“Avere sul territorio banche cooperative che conoscono i produttori, la nostra realtà, è stato molto importante in questi anni” dice ìl presidente del Consorzio. L’obiettivo è comunque una crescita significativa anche per i prossimi arati. Oggi Valtellina Casera e Bitto sono prodotti molto conosciuti nel Nord Italia, poco noti a Sud del Po e quasi sconosciuti all’estero. Per questo c’è molto spazio per allargarsi. Da un lato rilanciando il turismo enogastronomico del territorio valtellinese.
Dall’altro promuovendo campagne di comunicazione per dare maggiore visibilità a formaggi che hanno caratteristiche naturali sempre più apprezzate dai consumatori: materia prima italiana, allevamenti naturali, pascoli in alta montagna, alta qualità e fortissimo legame con il territorio.
Fonte: Avvenire