Nel grande percorso di sviluppo delle Indicazioni Geografiche in Italia, avviato quasi trent’anni fa con l’emanazione del primo regolamento europeo, manca all’appello una categoria molto importante: l’olio a Denominazione di Origine. Un prodotto che, malgrado le aspettative, non ha seguito la strada delle altre IG italiane nel loro crescente aumento di volumi certificati.
Nonostante le 49 registrazioni DOP e IGP che coinvolgono 18 regioni su 20, non si riscontra una evoluzione della filiera olivicola in termini di innovazione e capacità commerciale: e il settore è ancora una cenerentola che non riesce a raggiungere massa critica ed ottenere un impatto rilevante nel comparto delle IG italiane. Questo appare come un vero e proprio paradosso, visto che proprio un prodotto come l’olio mostra un bisogno sempre più impellente di distintività territoriale e qualitativa, per riuscire ad emergere rispetto alle produzioni di bassa qualità con materie prime provenienti da Paesi extra-UE.
In questo numero di Consortium abbiamo realizzato uno speciale sulle denominazioni del comparto, intervistando i protagonisti dei Consorzi di tutela più importanti per capire meglio quali siano i motivi di questo stallo per uno dei prodotti di punta del made in Italy.
Partiamo innanzitutto dalla dimensione aziendale che risulta essere ancora troppo piccola e che, nonostante vanti campioni di livello assoluto, non riesce a porre basi solide per avere la capacità di produrre e commercializzare con continuità nei canali distributivi. Altra spina nel fianco sono le imprese che si auto-penalizzano facendo concorrenza a sé stesse attraverso un utilizzo a intermittenza della certificazione DOP o IGP, senza una chiara logica commerciale e creando confusione e distorsioni nel mercato. Ancora aperto, inoltre, il dibattito sulla pratica agricola intensiva che vede schierati su due fronti diversi anche i produttori di una stessa denominazione. Se da una parte è chiara a tutti l’urgenza di individuare processi in grado di produrre nel modo più razionale, efficiente e sostenibile, dall’altra non si è ancora riusciti a condividere un percorso che preveda obiettivi comuni e strategie di sistema. Poi ci sono le cosiddette “grandi aziende nazionali” – mai aggettivo è stato usato più a sproposito, visto che di grande non hanno davvero nulla – che continuano a produrre olio con olive straniere e che, attraverso celebri “brand tricolore”, fanno passare per italiano ciò che italiano non è. In certi casi questi oli sono prodotti con una materia prima che ha percorso migliaia di chilometri in cisterne o stoccata nei silos, con tutto ciò che questo può comportare in termini di perdita di qualità, e vengono accostati alle produzioni italiane ad Indicazione Geografica negli stessi scaffali della GDO, con prezzi bassissimi. Per ultimo, ma non meno importante, il tema dei cambiamenti climatici che sta impattando in maniera considerevole sulla produzione di qualità del comparto più di quanto si possa immaginare e che vede le piccole aziende spesso da sole nell’affrontare problemi di non poco conto.
Negli anni l’approccio delle Indicazioni Geografiche del settore olivicolo è passato dalla volontà di proteggere e tutelare denominazioni di piccolissimi areali alla strategia dell’ultimo periodo, volta a registrare DOP e IGP regionali che in qualche modo si vanno a sovrapporre a quelle già esistenti. È presto per dire quali saranno gli effetti di questo cambiamento. Ci sono i casi come quello della Toscana, con un Consorzio di tutela ben strutturato, che sta funzionando. Ma quello che succederà nei prossimi anni in Puglia, Calabria, Sicilia e Marche non è ancora facile da prevedere.
Per riuscire a dare maggiore impulso al settore occorre coinvolgere in una strategia nazionale nuova le imprese, i Consorzi di tutela e le organizzazioni. Occorre una riflessione più ampia e profonda che deve necessariamente partire da quale ruolo può avere l’olivicoltura nella transizione verde e nella definizione dei nuovi stili alimentari e di vita che il Green Deal ci impone.
A cura di Mauro Rosati, direttore editoriale Consortium
Fonte: Consortium 2021_03