Se fino ad oggi delle oltre 800 aziende italiane oggetto, dal 2008, di acquisizioni cross-border (cioè da parte di gruppi esteri) solo una minima parte è rientrata tra le aziende del comparto agroalimentare, adesso la tendenza sembra decisamente invertirsi.
Per essere chiari, gli acquisti degli ultimi anni hanno riguardato sostanzialmente aziende medio-grandi, valorizzate da un brand forte, mentre, hanno toccato in maniera minore le PMI legate a prodotti di eccellenza. I 10 miliardi di valore dei marchi storici dell’agroalimentare italiano passati in mani straniere – stimati da Coldiretti – si riferiscono infatti soprattutto al comparto produttivo agroindustriale.
Con il crescere della notorietà del cibo italiano, le iniziative dei capitali esteri – cinesi, russi e arabi – si sono direzionate anche sulle PMI. Questa escalation può rappresentare un segnale molto preoccupante per due motivi; primo perché chi intraprende un’acquisizione fuori dai confini nazionali lo fa anche per sfruttare economie di scala che solo una dimensione d’azienda significativa riesce a generare. Secondo perché gestire aziende di questa natura non sempre si confà con le dinamiche finanziarie dei fondi. Infatti la peculiarità del territorio, e i metodi di produzione risultano quasi sempre il fattore vincente. Replicare modelli gestionali e produttivi sulle regole del capitale, non è pensabile in questo tipologie di imprese dove a fare la differenza sono altre cose. In primis l’ insostituibilità dell’intuitus personae, ovvero quel set di fattori individuali, come la competenza e la passione, che il produttore riversa nell’attività di impresa e che costituisce quasi sempre il fattore di eccellenza che attrae potenziali investitori.
Nell’agroalimentare, il successo di un’impresa legata in modo molto stretto alle capacità gestionali e alla presenza fisica dell’imprenditore, rischia di affievolirsi notevolmente se a costui si sostituisce un soggetto che non ne padroneggia anche i contenuti intangibili.
Come testimonia una volta in più il recente rapporto Istat, la crisi economica, aggravata dallo stato di tensione finanziaria, che mette in ginocchio molte imprese, rende molto vulnerabili gli imprenditori italiani, spingendoli con sempre maggiore frequenza a ricercare nell’apporto di capitali esteri la soluzione alle difficoltà. Sono soprattutto le piccole imprese agroalimentari che non hanno avuto le risorse per intraprendere efficaci politiche di espansione internazionale a risultare particolarmente colpite da una contrazione della domanda interna che mette a dura prova la tenuta dell’intero comparto.
Il rischio è quello di snaturare completamente il profilo tradizionale di un settore nel quale, spesso, i volumi di produzione sono legati a caratteristiche della terra e dei territori e non possono soddisfare la domanda di mercati giganteschi stravolgendo una scala basata su uno sviluppo sostenibile. Si affacciano alle porte del nostro Paese acquirenti cinesi o americani, alla ricerca di aziende di produzione (di olio, di vino, di latte) che abbiamo qualità italiana e volumi capaci di coprire un continente. E questo è sicuramente impensabile.
L’apertura indiscriminata a investitori esteri può essere un rischio per il sistema Paese, e la vulnerabilità alla crisi rischia di consegnare aziende con un importante patrimonio di competenze a investitori internazionali che non sempre possiedono la capacità (fatte salve le risorse finanziarie) per valorizzarle. In altri casi, ancora peggiori, esiste il rischio che capitali di provenienza illecita, possano trovare facile impiego e inquinare un settore che continua a rappresentare un biglietto da visita dell’Italia all’estero.
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