Nicola Cesare Baldrighi, presidente di Origin Italia:”A fare la differenza è stata l’esperienza dei singoli brand, la loro capacità di comunicare il forte legame tra prodotto e territorio di origine”
Valgono 16,9 miliardi di euro, rappresentano il 19% del fatturato complessivo dell’agroalimentare italiano e sono tutelati da 285 Consorzi che danno lavoro almeno a 180mila operatori, ma soprattutto sono ambasciatori di una cultura italiana del buon mangiare e del buon vivere: sono i prodotti enogastronomici DOP e IGP made in Italy.
L’utilizzo dei prodotti DOP e IGP mondo dell’industria alimentare è stato fotografato dalla ricerca di Qualivita “DOP e IGP valore trasformato” ed è una manna dal cielo che porta incassi e non intacca l’eccellenza del singolo prodotto, come conferma Nicola Cesare Baldrighi, presidente di Origin Italia.
Presidente, come è avvenuto questo passaggio dei prodotti all’industria della trasformazione e alla grande distribuzione?
“L’utilizzo di DOP e IGP nei preparati alimentari non è un tema di oggi, ne discutemmo già anni fa e con un decreto si cercò di inquadrare l’argomento per ordinarlo. La tendenza però è andata sviluppandosi nel tempo, man mano che le Indicazioni Geografiche hanno incontrato l’apprezzamento dei consumatori invogliando quindi le aziende di trasformazione a inserirsi nel mercato. Fondamentale è stato anche il lavoro dei Consorzi e delle aziende associate che hanno lavorato per soddisfare la richiesta dei mercati”.
In questo modo non c’è il rischio che prodotti d’eccellenza perdano la loro esclusività e quindi anche un po’ del loro valore economico e culturale?
“No, non penso che questo passaggio sminuisca il valore dei prodotti. Soprattutto perché i Consorzi più organizzati di fronte a questa richiesta chiedono garanzie attraverso uno schema di compra-vendita che difende il valore e la reputazione di ogni singolo prodotto a denominazione. Molto dipende dai partner, ovvero dalle aziende di trasformazione, ma siccome questo sono tutte autorevoli tutti ne traggono beneficio. Tengo a sottolineare che attraverso questo cambiamento, i consumatori possono gustarsi i prodotti trovandoseli già pronti e senza dunque specifiche conoscenze culinarie. È uno schema moderno che funziona”.
Da dove è nata la scintilla? Sono stati i consumatori a cercare DOP e IGP “già pronti” o le aziende?
“Il passo avanti decisivo lo hanno fatto le aziende le quali avevano intuito che la risposta della clientela sarebbe stata positiva. A fare la differenza è stata l’esperienza dei singoli brand, la loro capacità di comunicare e di comunicare il forte legame tra prodotto e territorio di origine”.
La pandemia ha fortemente condizionato i consumi fuori casa riducendoli a zero per un lungo periodo. La conseguenza è stata una riscoperta del piacere di mangiare in casa. Una tendenza che favorirà ulteriormente la fetta di mercato rappresentata dai prodotti lavorati con prodotti a denominazione?
“È evidente che il consumo delle famiglie in casa è in forte aumento rispetto al fuori casa e va da sé che rappresenti un punto a favore per quel tipo di prodotti. Bisogna chiedersi cosa resterà di tutto questo una volta che – si spera – la bufera passi e la ristorazioni tornerà ai livelli di due anni fa. Io credo che qualche abitudine che abbiamo preso in questo anno e mezzo resterà e che dunque quella fetta di mercato crescerà ancora”.
E all’estero cosa succede? Quei prodotti così in crescita in Italia volano anche oltreconfine?
“C’è un ampio mercato internazionale, ma lì si entra nelle logiche delle singole aziende, è tutto nelle loro mani e fare un bilancio generale è complesso”.
DOP e IGP non significa solo gusto, ma anche cultura italiana. È questo un claim che funziona ancora? La gente lo comprende davvero o è solo un richiamo commerciale?
“Si tratta di un elemento determinante, evidenziare il rapporto che ogni prodotto DOP e IGP ha con il proprio territorio e quindi con i saperi di quel luogo è favorevole per tutti e reale. E poi non dimentichiamoci che i prodotti riconosciuti devono essere certificati da enti terzi e quindi imparziali”.
C’è una sfida che state combattendo per migliorare ulteriormente il già florido comparto di DOP e IGP?
“Sì ed è delicata perché riguarda la sostenibilità. Ormai, giustamente, non si può più pensare di lavorare senza tenere come faro questo principio anche se le aziende che producono Dop e Igp sono già sulla strada giusta perché rispettano, appunto, il territorio in modo tradizionale e attento. Bisogna però migliorare ancora sull’aspetto del mero rispetto dell’ambiente che vuol dire rispetto per gli allevamenti, riduzione delle emissioni, gestione del territorio”.
In chiusura il tema delle etichette tanto discusso in Europa. Come è possibile che l’enogastronomia italiana venga messa sotto accusa? A che punto siamo col dibattito?
“La discussione è a livello comunitario e c’è una forte opposizione tra chi vuole spingere il cosiddetto Nutriscore (che boccia la Dieta mediterranea ndr.) e chi invece ne contesta le modalità con le quali è stato pensato. Noi riteniamo che sia fortemente sbagliata quella classificazione perché non valuta il ruolo che ogni alimento ha se inserito in una corretta dieta. E poi c’è un problema “tecnico” di quantità: ogni riferimento è sui 100 grammi, ma questo non può essere adattato ad ogni prodotto perché di alcuni se ne mangia molto di più e di altri molto di meno. Il motivo della discussione è di tipo commerciale e politico.. al momento non ci sono tappe future che possano cambiare le cose e fare più chiarezze anche perché molto viene inserito nel macro tema del Green Deal”.
Fonte: Italia a Tavola