Mariann Fisher Boel, la Commissaria Ue all’Agricoltura tra il 2004 e il 2010 proprio non riusciva a capire perché i consorzi di tutela italiani si ostinavano a chiederle strumenti per contingentare la produzione dei prodotti DOP e IGP. La cosiddetta programmazione dell’offerta. Mentre invece fu proprio grazie a quei meccanismi introdotti con il Pacchetto Qualità del 2012 e che consentivano ai consorzi di regolare l’immissione in commercio dei prodotti in base al trend della domanda – come avviene in qualsiasi azienda privata – che i prodotti alimentari DOP e IGP hanno spiccato letteralmente il volo.
Nato come un regime di tutela e protezione di produzioni tipiche (e per questo inizialmente osteggiati ma poi adottati dall’industria alimentare) il sistema dei prodotti alimentari a marchio Ue nell’arco di 3o anni ha dato vita a una vera e propria “Dop economy” che vale oggi 20 miliardi di euro solo in Italia e 90 in Europa.
Il punto che è stato difficile far capire alle menti più liberali e mercatiste – ha spiegato l’europarlamentare Pd, Paolo De Castro, relatore del Testo unico delle Dop, l’ultima riforma appena approvata dal Trilogo – che i prodotti alimentari di qualità non sono una commodity. Non sono la soia o il mais e vanno sottratti all’ottovolante delle quotazioni, al “teorema della ragnatela”, perché la loro qualità è frutto di tradizioni e soprattutto di sistemi di produzione che spesso richiedono lavorazioni accurate e stagionature lunghe con i relativi differenti costi di produzione. Nel tempo abbiamo dimostrato che i timori liberai non erano fondati. Il sistema dei marchi DOP e IGP non è un artificio per tenere alti i prezzi, ma un regime in grado di produrre valore e redistribuirlo sui territori. Senza dimenticare che la produzione a marchio UE nel tempo è sempre cresciuta allargando il numero degli operatori e dei territori coinvolti”.
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Fonte: Il Sole 24 Ore