Lo stato può tranquillamente dotarsi di regolamenti che vadano a rafforzare, ulteriormente, gli obblighi di trasparenza in etichetta sull’origine e sulla provenienza dei prodotti alimentari, prevedendo per legge ulteriori indicazioni, rispetto a quelle già disposte dal regolamento europeo n. 1169/2011. Ma queste indicazioni aggiuntive, decise su scala nazionale, devono in primis «rispettare le condizioni elencate nel regolamento n. 1169». E poi «devono essere giustificate da uno o più motivi attinenti alla protezione della salute pubblica, alla protezione dei consumatori, alla prevenzione delle frodi, alla protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza e delle denominazioni d`origine controllata, nonché alla repressione della concorrenza sleale»: queste parole sono della Corte di giustizia europea e sono contenute in una sentenza depositata ieri, 1° ottobre 2020.
La pronuncia è relativa alla causa C-485/18, che ha visto contrapporsi da un lato il colosso del lattiero caseario francese, Lactalis – che ha in portafogli anche importanti marchi della tradizione casearia italiani (come Parmalat, Galbani, Invernizzi, Vallelata, Cademartori, Locatelli) – e dall’altro il primo ministro francese e gran parte del suo governo. Nodo del contendere la richiesta, avanzata da Lactalis al Consiglio di stato transalpino, di annullare un decreto che impone, tra le altre cose, l’etichettatura dell’origine francese, europea o extra-Ue del latte, nonché del latte usato quale ingrediente negli alimenti preimballati.
Sulla scorta di questo provvedimento francese, autorizzato dalla Commissione europea, anche l’Italia ha poi varato decreti propri sull’obbligo di etichettatura d’origine degli alimenti e della materia prima agricola prevalente. E lo ha fatto in attesa di un nuovo regolamento europeo, applicativo del regolamento 1169/2011, poi giunto: il regolamento d’esecuzione n. 775/2018.
I decreti italiani, dicevamo, per l’esattezza sono cinque, tutti emanati dal Ministero delle politiche agricole, dopo una storica battaglia sul tema condotta dalla Coldiretti. E cioè: – il decreto 9 dicembre 2016 sull’obbligo di indicare il luogo di mungitura del latte e di origine dei derivati; – il decreto 26 luglio 2017 sull’origine obbligatoria in etichetta di pasta e grano duro; – il decreto 26 luglio 2017 sull’obbligo d’origine del riso; – il decreto 16 novembre 2017 sull’origine obbligatoria di pomodoro, sughi e salse; – da ultimo, il decreto 6 agosto 2020, sull’origine in chiaro di salumi e carni suine. Questi decreti si applicano solo ai prodotti confezionati in Italia e destinati al mercato italiano.
E per latte, pasta, riso e pomodoro, poi, l’obbligo di etichettarne l’origine è stato già rinnovato fino al 31/12/2021. Ora, in base a quanto sancito ieri dalla corte di giustizia Ue, «la loro adozione è possibile solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità degli alimenti di cui trattasi e la loro origine o provenienza e ove gli Stati membri forniscano elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni». In sostanza, il governo italiano e Coldiretti hanno vinto la loro battaglia di principio, anche se «la legittimazione» è giunta solo per procura, a seguito di un contenzioso condotto dal governo francese. Ma, avendo l’esecutivo italiano raccolto a supporto dei suoi decreti il consenso di 9 italiani su 10, dopo una consultazione on line a cui hanno partecipato 26.500 cittadini, di fatto ha dimostrato che, per il consumatore italiano, l’origine è rilevante. I giudici, però, sono andati anche oltre.
Il nesso alimenti-territorio. Per quanto riguarda i requisiti, che giustificano più stringenti norme nazionali, la Corte di giustizia ha precisato che «essi devono essere esaminati in successione». In primis «occorre verificare l’esistenza di un nesso comprovato tra talune qualità del prodotto alimentare di cui trattasi e la sua origine o provenienza». Poi, «se l’esistenza di un tale nesso è dimostrata, è necessario, in un secondo tempo, stabilire se la maggior parte dei consumatori attribuisca un valore significativo alla fornitura di tali informazioni». Di conseguenza, spiegano i giudici UE, questa valutazione «non può basarsi su elementi soggettivi, attinenti al valore dell`associazione che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra talune qualità dell`alimento e la sua origine o provenienza».
Il parametro della qualità. Da ultimo, la Corte di giustizia UE interviene sulla nozione di «qualità» degli alimenti. E osserva che essa: «Rinvia esclusivamente alle qualità legate all’origine o alla provenienza di un dato alimento e che distinguono, di conseguenza, quest’ultimo dagli alimenti che hanno un’altra origine o un’altra provenienza». Infine, i giudici avvertono: questo legame qualitativo tra un prodotto e la sua origine non riguarda fattori come «la capacità di resistenza di un alimento (come il latte) al trasporto». Ne riguarda «i rischi di alterazione» del prodotto stesso «nel corso del tragitto»; questi due fattori «non rilevano» nel consentire l’imposizione di un’indicazione d’origine.
Fonte: Italia Oggi