A parlare di Blockchain nel settore agroalimentare, spesso si riceve un’alzata di spalle, quasi a voler sottolineare che la disponibilità di informazioni dettagliate circa il processo produttivo non è certo una novità per il settore agroalimentare. In effetti un sistema nel quale dei blocchi condividono delle informazioni senza la possibilità di modificare le notizie raccolte somiglia molto all’iter di riconoscimento o modifica del disciplinare di produzione di un formaggio DOP o di un vino DOCG. Ma la Blockchain non è semplicemente un sistema, più evoluto rispetto al passato, per garantire una rintracciabilità o la certificazione della qualità di un prodotto ma un’opportunità per il settore. Ne è convinto Mauro Rosati, direttore della Fondazione Qualivita che da anni realizza insieme ad Ismea (l’Istituto di servizi per il mercato agroalimentare vigilato dal ministero delle Politiche agricole) un rapporto annuale sull’universo dei prodotti alimentari DOP e IGP italiani. Un esperto quindi di qualità certificata ma anche di innovazione legata al settore agroalimentare.
«Il lavoro fatto in questi anni dall’Italia sulla qualità – spiega – ci ha portato oggi a disporre di un sistema della qualità certificata che tra prodotti DOP, IGP e Biologici coinvolge circa 300mila imprese. Un patrimonio che può rappresentare un grande vantaggio nello sviluppo della Blockchain. È però importante che questo processo venga accompagnato da un approccio di sistema e non sia affidato solo all’iniziativa individuale. Già in passato nel nostro settore abbiamo assistito alla fioritura di bollini e certificazioni aziendali che però difficilmente producevano effetti sul mercato. Il salto di qualità è avvenuto quando dall’iniziativa individuale si è passati a una norma collettiva».
Ma quali possono essere gli sviluppi che possono venire dall’utilizzo della tecnologia Blockchain? «La grande quantità di dati oggi disponibile raccolti in forma digitale e talvolta ancora cartacea – dice Rosati – va integrata con le informazioni che possono venire dall’ “Internet of things”. Ad esempio un sensore posizionato all’interno di un magazzino di stagionatura dei prosciutti può certificare che quei prodotti siano stati effettivamente stagionati a una temperatura costante di 18 gradi. O ancora strumenti di georeferenziazione possono garantire che un tal prodotto è stato coltivato in una specifica zona. In questo modo il cru di un vino diventerà qualcosa di più di un atto di fiducia documentale. Siamo di fronte quindi a un salto di qualità rispetto alle informazioni già oggi disponibili che pian piano sta conquistando appeal nei confronti delle catene della GDO internazionale e dei consumatori».
Ma nel futuro dell’agroalimentare non c’è solo la Blockchain, bensì anche un ricorso sempre più diffuso e sistematico ai Big Data. «Sono le “due B” che possono segnare una nuova fase di sviluppo per il Food&Wine made in Italy – aggiunge Rosati -. I Big data grazie all’interazione con i social sono in grado di fornire una grande mole di informazioni su comportamenti e preferenze dei consumatori. Informazioni spesso postate da loro stessi e per questo più affidabili di un tradizionale sondaggio a campione. È così possibile conoscere in tempo quasi reale le preferenze sui vini dei frequentatori di ristoranti a Seul o ottenere indicazioni sulle principali differenze nel carrello della spesa tra i consumatori sulle due coste degli USA. Informazioni che prima richiedevano investimenti importanti, spesso fuori portata per una PMI. I Big data invece consentono di reperire informazioni a costi molto inferiori e con maggiore tempestività. Mentre i risultati delle complesse indagini utilizzate in passato, non di rado quando arrivavano, erano già superati».
Fonte: Il Sole 24 Ore