Che il settore della birra sia da anni in pieno fermento non è un segreto, così come non lo è la natura del nuovo ‘spirito’ birraio che si è diffuso in Italia, nato dalla volontà di appassionati ed esperti che hanno saputo creare realtà imprenditoriali innovative senza alcun supporto pubblico, partendo dalla qualità del prodotto e dall’artigianalità dei processi di produzione. Quella della birra è, infatti, una filiera in cui lavorano in tutto in Italia circa 140mila persone (5.000 a occupazione diretta), che genera 3,2 miliardi di valore aggiunto.
L’Italia è il 10° produttore europeo di birra, ma il 3° Paese per numero di microbirrifici con produzione annuale sotto i 1.000 hl, veri rappresentanti della lavorazione artigianale. I trend degli ultimi anni parlano di una produzione nazionale di birra cresciuta del +5,8% dal 2009 al 2014 a fronte di -2,2% complessivo europeo. I microbirrifici nel nostro Paese sono passati da 242 del 2009 a 585 nel 2014, per un incremento del +142% in soli sei anni.
Al di là dei numeri, il vero merito di questa esperienza tutta italiana è stato quello di aver in qualche modo piegato l’omologazione del gusto della birra imposto dalle grandi multinazionali. Soli, senza nessuno contributo pubblico, questi nuovi di imprenditori hanno cercato un legame solido con il territorio attraverso materie locali come castagne, farro, lenticchie ecc. per dare vita ad una nuova esperienza della birra. All’inizio sembrava solo una follia, una sfida tra Davide e Golia, ma poi il successo è arrivato, oltrepassando anche i confini nazionali.
Oggi, però, il settore necessita di una spinta ulteriore per fare un salto di qualità ed imporsi come fattore chiave di sviluppo dei territori. Il mondo della birra artigianale è gravato da un carico fiscale penalizzante rispetto agli altri Paesi UE, dove i birrifici indipendenti godono di una tassazione agevolata (del 50%) che permette maggiori investimenti. Su questo aspetto qualcosa si sta muovendo nelle istituzioni nazionali che hanno recentemente definito il significato di birra artigianale. “Dalle audizioni in commissione agricoltura – racconta il presidente della Comagri, Luca Sani – è emersa chiaramente la necessità di delimitare il perimetro giuridico entro il quale far rientrare le produzioni di nicchia dei birrifici artigianali, che stanno avendo un rilevante successo di mercato, così da distinguerle dalle realtà industriali”.
Un minore carico fiscale permetterebbe al settore di investire sulle materie prime agricole – grande gap con gli altri Paesi produttori – ovvero luppolo e cereali (orzo in particolare): ad oggi siamo costretti ad importarne dall’estero circa il 90%. Anche le condizioni di mercato sembrano spingere gli operatori verso la messa a sistema delle opportunità di produzione agricola. Arrivati ad oltre 1000 marchi di birre negli ultimi tempi, la grande industria si è vista costretta ad inseguire la tendenza del mercato verso la qualità artigianale, attrezzandosi per produrre linee diversificate basate su elementi di natura locale o sulla comunicazione legata alle materie prime come i luppoli, aspetto ‘tecnico’ fino a qualche tempo fa ignorato dalla pubblicità di massa.
Nei microbirrifici, questo processo ha generato la necessità di creare distintività partendo dalla materia prima, sviluppando una vera filiera produttiva. “Si è diffusa – racconta Antonio Massa, esperto del settore – l’idea di dare vita a distretti rurali birrai, in territori vocati, con un percorso che crei da un lato le competenze attraverso la formazione e dall’altro aziende che abbiano le capacità e la forza economica di coltivare e trasformare sia i luppoli che l’orzo in malto”.
Negli ultimi tempi le produzioni artigianali della birra italiana hanno avuto molti riconoscimenti internazionali affiancandosi all’immagine di eccellenza che contraddistingue il made in Italy. Attraverso la creazione di distretti rurali birrai, il settore potrebbe unire i vantaggi economici dei sistemi organizzati alla qualità delle produzioni agricole. Un processo che porterebbe all’affermazione di un prodotto di eccellenza in mercati maggiori, riversando ricchezza sul sistema agricolo e alimentare e sull’economia dei nostri territori.
A questo punto, forse, è giunto il momento che il Parlamento riprenda in mano la normativa di riferimento e crei i presupposti per trasformare questa esperienza in un settore economico evoluto attraverso regole chiare sia per i produttori sia per i consumatori, rendendo più semplice l’ancoraggio al territorio e alla filiera agricola italiana.
Mauro Rosati
Direttore Generale Fondazione Qualivita