Assica: autorizzazioni ferme da due anni: solo il 30% dei macelli può esportare maiale. La Cia: i nostri allevamenti sono già sostenibili, dalla Ue più fondi alla ricerca
Troppe autorizzazioni ancora bloccate e un protocollo tutto da aggiornare frenano l’export di carne e salumi italiani in Cina. La denuncia arriva da Assica, l`associazione che riunisce le imprese del settore: in un momento che sarebbe d`oro per le nostre aziende, con la domanda cinese di carne suina che soltanto nei primi tre mesi del 2021è cresciuta de119,4%, il made in Italy sconta ostacoli sanitari che ne diminuiscono le opportunità di business.
«Ad oggi – spiega Davide Calderone, direttore di Assica – soltanto 9 stabilimenti italiani sono autorizzati all`export: se guardiamo al panorama dei grandi macelli industriali italiani, è solo il 30% del totale». Il protocollo sanitario Italia-Cina che ha detto sì all’export di carne suina risale a tre anni fa, «ma sono due anni che le liste per le autorizzazioni sono chiuse – dice Calderone – diverse aziende italiane hanno fatto domanda, ma sono ferme. Che il Covid rallenti le ispezioni è una scusa: l`anno scorso, in piena pandemia, quando le autorità cinesi hanno avuto bisogno di fare i controlli sanitari hanno organizzato le videoispezioni».
Tra gennaio e marzo l’Italia ha esportato in Cina 9mila tonnellate di carne suina, quattro volte più che nel primo trimestre del 2020. E questo nonostante l’incidente diplomatico di inizio 2021, quando una partita di carne italiana fu bloccata alle frontiere perché – sostennero le autorità cinesi – era infettata dal Covid. Per fortuna l’episodio è rimasto isolato, e il 2021 resta un anno fondamentale per spingere sul mercato cinese delle carni, prima che Pechino ripristini le capacità produttive interne decimate dalla peste suina e decida di ridurre le importazioni, a favore della produzione nazionale.
«Nel 2020 la pandemia aveva bloccato tutto, ora che il mondo si sta riaprendo possiamo sollecitare una maggiore azione diplomatica spiega Filippo Gallinella, presidente della Commissione agricoltura alla Camera – in questi giorni l`Italia ha sbloccato il protocollo per l`esportazione di riso in Cina, è il momento buono per fare un passo in più». Da sbloccare, sul fronte delle carni, non ci sono soltanto le richieste di autorizzazioni degli stabilimenti. È l`intero protocollo, che deve essere aggiornato: «Intanto alla lista dei prodotti esportabili mancano alcuni tagli, come per esempio la testa del maiale – spiega l’onorevole Gallinella – che per il mercato italiano non ha valore, ma su quello cinese è particolarmente richiesta. Inoltre, ad oggi la Cina ammette solo l`esportazione dei maiali italiani allevati al Centronord, fino all`Emilia Romagna e alle Marche. All`epoca degli accordi, al Sud era diffusa la peste suina, ma ora questa malattia è stata debellata ovunque tranne che in Sardegna. Non c`è più motivo per cui una parte del nostro Paese sia esclusa dagli scambi commerciali».
In Italia fra suini, bovini e altri animali da allevamento, la zootecnia vale zio miliardi di euro, la metà di tutto l’agroalimentare nazionale, ha ricordato ieri la Cia-Agricoltori italiani nel corso di un webinar dedicato al comparto. E non c`è solo il tema dell’export a togliere il sonno degli allevatori: proprio in questi giorni sono riprese le discussioni sul Green Deal europeo, con le associazioni ambientaliste da un lato che chiedono a Bruxelles di ridurre del 70% il consumo di carne entro il 203o. E con gli imprenditori agricoli che sostengono di essere già sulla buona strada della sostenibilità, poiché gli allevamenti pesano solo il 5,2% sul totale delle emissioni di CO2. «Bisogna identificare gli strumenti finanziari adeguati per sostenere economicamente gli allevatori che avranno bisogno di nuovi investimenti per migliorare la sostenibilità degli allevamenti grazie alle nuove tecnologie», ha detto il presidente della Cia, Dino Scanavino.
Fonte: Il Sole 24 Ore