La Repubblica
Sembra di riportare le lancette indietro di quattro anni, alla vigilia della recessione mondiale, quando il boom dei prezzi di alcuni prodotti agricoli provocò tensioni sociali in tutto il mondo, accelerando così la crisi economica. Quest’anno la Russia difficilmente potrà aiutare l’Europa con le sue forniture di cereali. Il raccolto è risultato scarso non solo negli Usa e in Canada, ma anche nella Federazione. Le previsioni di produzione inizialmente erano intorno ai 90 milioni di tonnellate, ma il valore effettivo si attesterà con molta probabilità intorno a quota 68 milioni. Se si considera che il consumo interno attuale è di 75-77 milioni di tonnellate, si capisce subito la ragione della paralisi che sta interessando l’export. Negli Stati Uniti le difficoltà della produzione agricola sono al centro dell’attenzione mediatica, si parla senza mezzi termini di catastrofe nazionale in corso. In Russia, invece, della scarsità del raccolto si discute poco, come se non rappresentasse un grosso problema. In realtà è esattamente il contrario, anche perché la Federazione non ha riserve (se non particolarmente limitate) da attivare in caso di emergenza. Così il Paese rischia di trasformarsi da storico esportatore a importatore di grano, con tutto ciò che questo comporta in termini di prezzi per beni di prima necessità come pane e pasta, fondamentali nel paniere dei consumi di molte famiglie russe. Proprio l’emergenza che il Paese sta vivendo potrebbe però portare a importanti novità nell’organizzazione del mercato. La Russia ha le condizioni per accrescere notevolmente (in tempi normali) la propria produzione, grazie a 120 milioni di ettari di terreno coltivato. Escludendo dal totale le terre che necessitano di un intervento di rimessa a coltura dopo un lungo periodo di inattività, rimangono circa 100 milioni di ettari. La produttività minima è di circa 30 quintali per ettaro all’anno, per cui è possibile ottenere non meno di 300 milioni di tonnellate, di cui 200 milioni di cereali. Una cifra quasi tripla rispetto ai consumi interni, che proietterebbe la Russia al primato mondiale dell’export (basti pensare che gli Stati Uniti, che detengono attualmente il primato, si fermano a 70-75 miliardi). A impedire di sviluppare tutto il potenziale di produzione è in primo luogo un’organizzazione del settore ormai vetusta, incapace di seguire le novità prodotte sui mercati internazionali. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, lo sfruttamento delle terre arate è passato in secondo piano nel Paese perché l’agricoltura non è stata considerata prioritaria nei progetti di politica economica. Il passaggio dal vecchio ministro dell’Agricoltura, Elena Skrynnik. provenivente dall’industria farmaceutica, e il nuovo, Nikolai Fedorov, per molti anni a capo della Repubblica Ciuvascia (caratterizzata da una forte vocazione agricola) segna un deciso cambiamento di passo, che tenuto nel giusto conto. In ballo non c’è solo la necessità di salvaguardare un’attività primaria dell’economia come l’agricoltura, ma di considerare anche tutto l’indotto, come la logistica, la produzione e manutenzione di macchinari agricoli e la produzione di fertilizzanti. Per non considerare le positive ricadute sul mercato del lavoro che vi sarebbero in seguito a maggiori investimenti sull’efficienza del settore.