Nel momento in cui il virus della cucina ha colpito un po’ tutti e trasmissioni come Masterchef ci consegnano una visione suggestiva della nostra enogastronomia, in Italia sta nascendo una vera e propria rivoluzione dei consumi di chi per lavoro è costretto a pranzare fuori casa e non solo.
Meno soldi, meno tempo, meno conoscenza del cibo fatto in casa, spingono verso la ricerca di soluzioni nuove e alternative che, come spesso capita, nuove non sono per niente, ma forse solo rivisitate; ed è boom dello street food.
Una rivoluzione che conta già le sue prime vittime; nel 2011 sono stati chiusi circa 9000 ristoranti, mentre le prime stime del 2012 sono ancora più significative. Se si considera che sono circa 12 milioni gli italiani che mangiano fuori casa e circa 1,8 miliardi di pasti consumati all’anno, possiamo ben capire quale valore economico possa esprimere lo street food, in tutte le sue forme, dal fast food al chiosco etnico. Ma il cambiamento del pranzo di lavoro non si ferma qui; molti hanno scelto di portarsi il pranzo preparato in casa, con il gavettino di antica reminiscenza. Bandite le scatolette. Il cibo di strada è anche un approdo più semplice, specialmente per i neo chef o per chi decide di intraprendere oggi la strada della ristorazione. Mentre prima era quasi una vergogna consumare cibo da strada, oggi con il ritorno alla ricerca del genuino, del territorio e del risparmio, è diventato di moda; per questo motivo piatti come i «trapizzini» o la pizza degli «streetchef» Stefano Callegari e Gabriele Bonci sono diventati dei propri cult.
«Anni fa feci una guida per De Agostini proprio sullo street food e mi accorsi che il modello prevalente nell’offerta era diventato quello americano: conta più la street che il food – è il parere di Carlo Cambi, giornalista e autore della popolare guida il Mangiarozzo – Il cibo inteso non nel suo valore ma nella sua utilità. Per buona sorte adesso il cibo di strada è tornato alla sua origine: accompagna il viandante nella scoperta sensoriale dei luoghi che sta attraversando».
Il cibo di strada è stato finalmente sdoganato anche dai food blogger. Fa tendenza e quindi ha aperto anche al grande pubblico dei fooders. Oggi abbiamo capito che i trasporti incidono sulla freschezza e la genuinità dei prodotti, come anche la stagionalità, e che nei diversi territori si sono sviluppate forme di street food uniche che possono risolvere pranzi veloci un tempo destinati a lavoratori umili, oggi prediletti dalla classe media, giovani e impiegati.
«Il cibo di strada sta assumendo un ruolo sempre più rilevante – commenta Stefano Carboni, giornalista ed autore televisivo, esperto di enogastronomia. – È un tipo di ristorazione diverso, che enfatizza il legame tra prodotto e territorio. Ed è proprio per questa rilevanza che lo street food diventa un biglietto da visita per il Made in Italy e ritengo necessaria la creazione di uno standard qualitativo che in qualche modo abbia una funzione di garanzia per il consumatore, in particolare quello straniero. La qualità delle materie prime, della preparazione e del servizio devono costituire dei principi condivisi così come accade per la ristorazione ufficiale».
La cultura dello street food ha favorito l’introduzione nel nostro Paese anche di tradizioni alimentari straniere: kebab e take way cinesi tanto per fare qualche esempio. Un’invasione di cibo etnico che inizia a non piacere agli amministratori locali tanto che in alcuni comuni si sta già pensando al modo di limitarli. Ma il problema non è solo di ordine politico e culturale. Rimangono ancora molte incertezze sul cibo di strada, in generale; in primis gli standard igienici, l’origine delle materie prime e l’informazione al consumatore. Lo street food ha un occasione davanti; può crescere ma ad una condizione: dovrà dare risposte convincenti ai consumatori.