Il Sole 24 Ore
Negli anni recenti molti hanno dovuto rivalutare il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo del Paese. Vi ha concorso più di un fattore. Ha pesato la consapevolezza generale che il contributo cedente dell’agricoltura alla formazione della produzione e dell’occupazione non costituisse una legge naturale inesorabile, bensì l’esito di scelte intenzionali e reversibili. Che hanno a lungo ricercato la riduzione dei costi unitari a prezzo della salute, delle condizioni di lavoro e della sostenibilità di lungo periodo. Che hanno mortificato la diversità e il nesso cibo-cultura. Che in Europa sono state a lungo disallineate rispetto agli interessi delle sue aree meridionali.
Ha poi pesato la crisi economica, che ha spinto a cercare nel l’agricoltura la soluzione a problemi di lavoro e anche di sussistenza: in Italia tra il 2010 e il 2012 l’agro-alimentare ha accresciuto le esportazioni del 20%, arrivando a 33,6 miliardi di euro. Sempre in Italia, al cambio di prospettiva ha contribuito la (ritardata) apertura del Paese all’immigrazione internazionale, con la crescente presenza sui campi di forza lavoro non di nascita italiana, sia come lavoro dipendente, talora sfruttato in modo anche primitivo, talora in un ruolo imprenditoriale di interesse.