Sarà anche un cibo povero, fatto com’è di farina di grano tenero, acqua, strutto o olio d’oliva, un pizzico di sale e lieviti. Però è un pezzo di storia della Romagna, peraltro copiato nel mondo. Così ora che la Piadina Romagnola (o piada) ha avuto il marchio IGP di indicazione geografica protetta rilasciato dalla Commissione Europea, i ventuno produttori romagnoli riuniti nel Consorzio di tutela hanno messo insieme la questione identitaria e quella economica, tutt’altro che secondaria. E hanno scatenato guerre giudiziarie, senza risparmiare nessuno, nemmeno i cugini emiliani. Vicini, ma diversi, per storia e tradizioni. Inclusa quella gastronomica.
La prima a fare le spese dell’iniziativa romagnola è stata infatti un’azienda di Modena. Dopo ricorsi al Tar e appelli, il Consiglio di Stato ha dato ragione alle imprese consorziate: la vera Piadina è solo quella della Romagna, vale a dire quella fatta nelle province di Rimini, Ravenna e Forlì-Cesena, tutto il resto è prodotto «taroccato».
Per le aziende che si fregiano del bollino IGP la sentenza ha fatto finalmente giustizia. E ha aperto la strada ad azioni legali internazionali. Così ora gli avvocati dei produttori romagnoli – che ogni anno mettono sul mercato quasi 46 mila tonnellate di piadine per un valore di quasi 100 milioni – si sono messi al lavoro per soppesare le cause da intraprendere in giro per il mondo e bloccare la contraffazione. Si arriva persino nella lontana Cina, l’ultimo Paese in ordine di tempo – dopo Australia, Spagna, Stati Uniti dove il Consorzio ha scoperto, setacciando con certosina pazienza.
Fonte: Il Venerdi di Repubblica