Passata una 50esima edizione del Vinitaly densa di stimoli per lo sviluppo del settore vino made in Italy, il sistema vitivinicolo si trova a guardare al proprio futuro con molte nuove sfide lanciate da un mercato sempre più globale e sempre più articolato. Ponendosi dal punto di vista delle nostre aziende vitivinicole che nel 2015 hanno prodotto un fatturato di 9,7 miliardi di euro (5,4 di export), quali sono le priorità che emergono dall’analisi di macro-scenario e quali le prospettive di medio periodo?
In primis vale la pena tornare al panorama nazionale dove il dato più evidente è quello legato al costante calo dei consumi: -34% negli ultimi quindici anni secondo i dati Wine Monitor di Nomisma. Malgrado questa tendenza, il consumo di vino in Italia (36,5 litri pro-capite) è il secondo al mondo dopo la Francia nella classifica che vede una media generale di 3,3 litri. Mutano anche gusti e abitudini: crescono ad esempio gli acquisti di qualità nella Grande Distribuzione, dove le bottiglie più richieste, secondo un’indagine Iri, sono quelle certificate (DOP e IGP), i vini frizzanti e gli spumanti. E cresce molto il vino biologico (nel 2015 +29% nella GDO), pur restando un mercato di nicchia, così come tornano a farsi più frequenti i consumi fuori casa, che realizzano circa la metà del valore del mercato nazionale. Uno scenario incerto, dunque, ma che apre spazi di crescita da presidiare.
Se i consumi di vino calano in Italia, i vecchi e nuovi mercati esteri diventano sostanziali per la sopravvivenza dell’intera economia vinicola nazionale. Come ha affermato Denis Pantini, responsabile Wine Monitor di Nomisma, “dal punto di vista economico-reddituale, dopo un leggero arretramento del fatturato nel 2014, nel 2015 si confermerà un miglioramento dei conti definitivi, in particolare saranno le imprese con maggior propensione all’estero ad avere marginalità rilevanti”.
Gli scenari della crescita dunque rimangono i mercati esteri, in particolare quelli nuovi come la Cina in cui l’import di vini è cresciuto di 300 volte in dieci anni, passando da un valore di 60 milioni di euro nel 2005 a 1.840 nel 2015, sebbene i margini per il nostro Paese non siano ancora del tutto sfruttati: nell’ultimo anno le esportazioni italiane in Cina sono aumentate più del 15%, ma in uno scenario che ha visto l’import crescere di oltre il 60%. A dare sostanza a questo processo basti segnalare che la nostra quota di mercato nel paese asiatico è diminuita del 9% dal 2001 (14%) al 2015 (5%). Complice anche il mancato aggancio del canale dell’e-commerce che – come sottolinea Jack Ma, fondatore e patron di Alibaba – esplode in Cina anche nel mercato del vino, ma con una fetta ancora troppo piccola di prodotti italiani.
“Volendo sintetizzare le priorità – afferma Alberto Mattiacci, professore di Economia e Gestione delle Imprese alla Sapienza ed esperto del settore – utilizzerei tre parole: marketing, inglese e digitale. È necessario crescere sul piano del marketing considerando che le regole cambiano a seconda che si lavori nel basic o nei mercati di fascia superiore. L’inglese non serve solo per parlare ai clienti stranieri ma anche per sfruttare il grande potenziale offerto dal digitale: l’accesso al mondo. In particolare, l’accesso all’e-commerce che consente di soddisfare un attributo centrale della domanda di vino di qualità – la sperimentazione – e aiuta le imprese (soprattutto quelle destrutturate) ad accedere a una domanda potenziale altrimenti impensabile”.
Diventa quindi fondamentale incentivare la crescita dimensionale e culturale del settore. Ma come ci ricorda Riccardo Ricci Curbastro, Presidente di Federdoc “occorre in aggiunta a tutto questo un impegno delle aziende sul tema del rispetto dell’ambiente. I consorzi di tutela italiani stanno realizzando il progetto “Equalitas”, un protocollo che attesti la sostenibilità ambientale e sociale dei processi produttivi del vino, arrivando ad implementare un sistema efficace di certificazione delle aziende, dei territori e dei prodotti.
Anche se le prospettive del vino italiano sono positive, resta il tema dello spropositato aumento dell’offerta a livello mondiale, contesto in cui resta vincente la capacità per le nostre imprese di stare in rete e di rafforzare i punti di “hub”, ovvero i consorzi come strumento strategico di marketing e di tutela. I facili guadagni dell’ultimo periodo hanno fatto sì che le aziende riducessero investimenti e interesse sui consorzi, senza i quali il futuro del vino italiano sarà molto più difficile.
Mauro Rosati
Direttore Generale Fondazione Qualivita