In un momento in cui, abbandonate le quote latte, le sfide delle filiere casearie si fanno impegnative e lasciano supporre a molti la necessità di una rivoluzione strategica e culturale, ci sono storie e realtà del comparto che vale la pena raccontare affinché siano punti di riferimento per affermare nuovi step di sviluppo. Tra le zone che subiscono di più questa crisi di settore ci sono senza dubbio le aree rurali che in molte parti di Italia devono molto alla zootecnia da latte in termini di sopravvivenza degli insediamenti umani e della salvaguardia del territorio. Oltre alla grande tradizione alpina, è nel cuore dell’Italia che si trova uno degli areali simbolo del rapporto tra mondo rurale e comparto lattiero-caseario, l’Appennino, un sistema che tocca quindici Regioni, comprende più di duemilacento Comuni italiani e si estende per oltre milleduecento chilometri, coprendo una superficie complessiva di circa novantaquattromilaquattrocento chilometri, pari 31,2% dell’intero Paese. Sopra i pascoli appenninici, da secoli i pastori lavorano per creare la materia prima di alcune delle più grandi produzioni agroalimentari italiane, i formaggi DOP (Denominazione di origine protetta) e IGP (Indicazione geografica protetta), che a loro volta riescono spesso a generare ricchezza per il loro territorio di origine.
Il punto di partenza, l’esempio in questo senso più emblematico, è dato proprio da una delle maggiori denominazioni italiane e mondiali, il Parmigiano Reggiano DOP, che tramite il proprio Consorzio di Tutela ha messo a punto un “Progetto qualità” per il prodotto di montagna, dedicato in modo specifico al formaggio delle aree dell’Appennino, con l’obiettivo di mantenere un sistema agroalimentare dinamico e in grado di garantire reddito a 1.200 allevatori e attività a 102 caseifici. Attraverso questo progetto il Consorzio garantisce ai produttori una remunerazione maggiore rispetto al prezzo ordinario ad una materia prima di altissima qualità, per supportare lo sviluppo di zone rurali di montagna a rischio scomparsa, ma anche per offrire al consumatore un prodotto ulteriormente qualificato e certificato da apposito marchio: non si tratta perciò di una politica meramente assistenzialista, ma di un’azione in chiave strategica per un insieme di aree nelle quali si concentra una produzione di oltre settecentomila forme su un totale di 3,3 milioni, una cifra che attesta il Parmigiano Reggiano DOP come il formaggio che vanta la più elevata produzione in montagna, per un valore al consumo superiore ai 380 milioni di euro.
Oltre a questa esemplare esperienza, nei Comuni dell’Appennino si riscontrano altre numerose produzioni di formaggi DOP che caratterizzano l’eccellenza dell’offerta casearia italiana, filiere forti e piccole realtà, dal nord al sud della penisola: dal Grana Padano DOP e Gorgonzola DOP, fino alla Casciotta di Urbino DOP e il Caciocavallo Silano DOP solo per fare alcuni esempi. Di vasta rilevanza, inoltre, tutta la produzione di formaggi con latte ovino, dalle grandi filiere del Pecorino Romano DOP e Pecorino Toscano DOP, arrivando al Pecorino di Filiano DOP e il Pecorino Siciliano DOP, passando dalle più recenti denominazioni del Pecorino di Picinisco DOP e il Pecorino Crotonese DOP.
Queste produzioni ricoprono un valore particolare per i territori di bassa montagna concedendo alla pastorizia di essere ancora efficace strumento di conservazione della stabilità di sistemi ambientali, ecologici e sociali dal delicato equilibrio, particolarmente nel contesto mediterraneo. La pastorizia, come forma di allevamento estensivo, è stata proprio per questo riconosciuta dall’Unione Europea come una delle pratiche a più alto valore di naturalità, concordando sul rischio che il suo abbandono comporterebbe conseguenze negative ambientali sociali ed economiche; perfino dalle Nazioni Unite arriva l’invito ai Paesi a investire per rafforzare questa forma di allevamento molto in accordo con gli obiettivi della green economy. Lasciare questi mestieri e queste aree a se stesse durante un fase di crisi, senza riconoscerne l’immenso valore per tutto il sistema Paese, sarebbe un errore difficilmente recuperabile e che le future generazione farebbero molta fatica a perdonarci.
Mauro Rosati
Direttore Generale Fondazione Qualivita
Fonte: l’Unità