“Una svolta storica per latte burro e formaggi, che permetterà di inaugurare un rapporto più trasparente e sicuro tra allevatori, produttori e consumatori”. Il ministro Maurizio Martina ha licenziato con soddisfazione il decreto che introduce l’indicazione obbligatoria in etichetta dell’origine dei prodotti lattiero-caseari, operativo a partire da domani. In scia al Ministero, peana assortiti di associazioni e industria. In realtà, la dicitura: “Origine del latte Italia” dice davvero troppo poco a chi compra e tutela ancora meno chi produce, soprattutto chi produce bene.
Purtroppo la crisi incancrenita del sistema latteario italiano (e agricolo più in generale) non si esaurisce con l’assioma: noi tutti buoni, gli altri tutti scadenti. Perché semplicemente non è vero.
Intanto, non tutto il latte italiano è uguale. Tra allevamenti intensivi e quelli di pascolo, le differenze sono enormi, in termini di qualità organolettiche e nutrizionali. Peccato che al momento di venderlo, il valore si trasformi in merce, e il latte venga pagato inderogabilmente sotto i 40 centesimi al litro. Che arrivi dalle stalle seriali della Val Padana o dai prati fioriti delle Alpi, è tutto made in Italy. E allora, vale la pena incaponirsi a fare la transumanza, portare gli animali in quota, coltivare erbe pregiate e senza chimica per il foraggio invernale, se a contare è solo la quantità?
La tristezza diventa scoramento se pensiamo che altrove il “grass fed” (nutriti con erba) sta diventando il mantra di associazioni contadine sempre più diffuse e strutturate, dagli Stati Uniti all’Austria, mentre in Italia siamo passati dalla difesa delle produzioni a latte crudo – cavallo di battaglia di Slow Food – ad aggrapparci alle produzioni a latte liquido, e non in polvere o da cagliata. Se in Argentina esistono prati di cinquemila ettari con densità di mucche pari a quella dei quadrifogli, difficile pensare che quel latte sia peggiore di quello prodotto in una stalla intensiva italiana.
L’adozione delle regole europee non risolve il nodo di un sistema che premia la crescita della produzione e non la qualità. Eppure, un altro latte (e formaggio) è possibile, insieme alla promozione di un’agricoltura che premi la nostra meravigliosa storia di paese di Bengodi. Roberto Rubino, scienziato del settore lattiero-caseario e fondatore dell’Anfosc – associazione nazionale formaggi sotto il cielo – spiega: “Dobbiamo smettere di pensare che il cibo sia una commodity. Grano, riso, latte: tutto uguale. Al contrario, bisogna andare verso il tutto diverso. Impariamo dal vino, dove coesistono il Tavernello e il Sassicaia, bottiglie da tre euro e da trecento. Il cittadino deve sapere non solo se il latte è stato prodotto in Italia, ma soprattutto come è stato prodotto”.
Fonte: la Repubblica