Il nuovo decreto su no e low acol è stato accolto con favore dalle imprese vitivinicole. E ci sono anche denominazioni – dal Prosecco DOP al Chianti DOP – che guardano con curiosità al futuro
In attesa del decreto promesso dal ministro Francesco Lollobrigida, le cantine italiane provano a ragionare sull’opportunità offerta dai vini dealcolati e a basso contenuto alcolico (segmento no-low), che finalmente si potranno produrre anche in Italia. La scelta del Masaf di presentare la bozza di testo alle associazioni di categoria porta a un altro livello il dibattito sulla categoria di vini, ammessi in Europa col Regolamento (Ue) 2021/2117.
Una buona fetta della grande distribuzione organizzata (gdo) si era già espressa poche settimane fa dalle colonne del settimanale Tre Bicchieri sulle possibilità per le imprese e per la distribuzione di intercettare il trend; e prima lo avevano fatto con insistenza importanti sigle del vitivinicolo come Unione italiana vini.
Al recente Simei, non si è parlato d’altro: la fila di operatori davanti alle macchine per la dealcolazione sono state una riprova. E anche il recente salone internazionale del vino sfuso (Wbwe) di Amsterdam ha dato ampio spazio ai cosiddetti prodotti #nolo.
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I vantaggi concreti per il Prosecco DOP
Non ci sono solo le cantine ma anche i Consorzi di tutela delle grandi Dop a osservare con attenzione questo importante cambiamento per il vino italiano. Il Consorzio della DOC Prosecco, guidato dal presidente Giancarlo Guidolin e diretto da Luca Giavi, intravede una valvola di sfogo per una parte delle migliaia di ettari di uva glera fuori dalla denominazione. Posto che sui dealcolati la battaglia si è «persa quando si è deciso di chiamarli vini sarebbe stato assurdo – spiega Guidolin – lasciare l’opportunità ad altri Paesi e non all’Italia. Per noi, in ogni modo, l’apertura ai dealcolati potrebbe essere una soluzione per quelle superfici che insistono sul territorio e che oggi sono escluse dal potenziale produttivo della DOC Prosecco». Quanto agli sbocchi di mercato, secondo il direttore Giavi, non si tratta tanto di geografia globale quanto di «crescita trasversale in relazione all’età di alcune generazioni. Inoltre, i dealcolati non ci appaiono in competizione col vino convenzionale. Se poi tale fenomeno continuerà è tutto da verificare». Difficile, infine, pensare oggi a un futuro Prosecco Dop dealcolato (il decreto non comprende le Dop), ma un Consorzio moderno come quello veneto-friulano non può escludere totalmente un’idea, un’utopia che sarebbe molto divisiva, che non è – si badi bene – oggetto di discussione in Cda: «In quel caso, dovremmo fare una profonda analisi, ma è chiaro che l’argomento non è in agenda». Chissà.
Il Chianti DOP non chiude le porte
Un’altra denominazione che per ora non è ammaliata dal mercato no-lo è il Chianti DOCG. Ma il presidente Giovanni Busi, che guida il Consorzio toscano, guarda avanti con un certo relativismo e con visione aperta: «In questo momento storico non vedo certamente un Chianti no-low alcol, ma non posso nemmeno dire che tra dieci o vent’anni non ci possa essere. Sicuramente – afferma – non farei mai una variazione al disciplinare per dire che oggi e per sempre non faremo vini no-low alcol». Il segmento, secondo l’imprenditore, è un nuovo spazio dove investire. «I mercati mondiali del vino si stanno allargando. Oggi, un produttore di vino che fa 300mila bottiglie ovviamente non può sobbarcarsi il costo di uno stabilimento per dealcolare, ma esistono alternative come il contoterzismo. Ed è giusto che tutto questo, come dice il decreto, avvenga in Italia e non si debba andare all’estero per realizzare tali prodotti». Il presidente Busi guarda poi ai mercati: «L’Italia è tra i primi esportatori negli Usa di vino no-low alcol. E li facciamo fare soprattutto in Francia. Altri mercati sono quelli di fede musulmana e poi c’è il Giappone, dove sta spopolando il vino in lattina. Il fenomeno mi era stato raccontato ma non ci credevo. Poi, ho girato alcuni supermercati a Tokyo: interi corridoi con tutti vini in lattina. Allora dico che nel mondo c’è spazio per tutti. L’Italia e le denominazioni devono mantenere la propria specificità ma in qualche modo dobbiamo anche adeguarci ai cambiamenti».
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Fonte: Gambero Rosso.it