Le previsioni non danno scampo: il gap tra nascite e morti cresce sempre più. Continuando a questo ritmo il mercato del lavoro, già in sofferenza, perderà altri milioni di attivi. Meno Pil, consumi, sviluppo, meno incassi fiscali E più spese per il welfare.
Cinquant’anni che cambiano il volto di un Paese. Fra il 2020 e il 2070 l’Italia scenderà da 59,6 milioni di abitanti a 47,6. Oggi siamo a 59,3 milioni. I tecnici dell’Istat che hanno stilato la proiezione con metodologie Eurostat e United Nations Population Division, lo chiamano “inverno demografico“. Meno abitanti significano meno incassi fiscali, meno Pil, ricchezza, consumi, sviluppo. Eppure, un rimedio almeno parziale è a portata di mano: un migliore uso delle risorsa-migranti. I calcoli dell`Istat scontano un flusso di 130-150mila arrivi netti l’anno, più o meno i livelli attuali (se mancassero quelli, anziché 12 milioni perderemmo 18 milioni di abitanti) ma molto di più si può fare. Parlano le cifre, non le ideologie.
Intorno all’immigrazione e soprattutto alle sue interconnessioni con il mercato del lavoro è nata una labirintica serie di luoghi comuni tali da annacquare i tentativi di razionali e calibrate politiche. «Un pregiudizio diffuso è che i migranti ci costino chissà quanto», dice Stefano Scarpetta, direttore per il Lavoro e gli affari sociali dell’Ocse. «Invece in tutti i Paesi industrializzati gli immigrati pagano in tasse e contributi più di quanto ricevono in pensioni, salute ed educazione. Ciò è spiegabile perché si tratta per lo più di giovani, sani e determinati. E se si includono le spese militari e perfino il servizio del debito pubblico, il contributo dei migranti resta positivo in un terzo dei Paesi Ocse, inclusa l’Italia». Occorre, dice Scarpetta, «una politica attiva che individui le necessità del mercato del lavoro e regoli gli arrivi a seconda delle caratteristiche di cui abbiamo bisogno: la migrazione la subiamo anziché gestirla».
La demografia, dopo decenni di scarsissime nascite, non dà scampo. «In Italia gli over 65 passeranno da 14 a 19 milioni entro il 2050 – spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica – e intanto perderemo 8 milioni di lavoratori fra i 20 e i 64 anni. I trentenni sono un terzo in meno dei cinquantenni, e a loro volta i nuovi nati sono un terzo di meno dei trentenni. Il gap fra nascite e morti supera ormai le 300 mila unità, 700 mila decessi e 400 mila nascite».
Ma la tendenza è quella di un’ulteriore discesa delle nascite sotto le 300 mila entro il 2050. Il Pnrr prevede un massiccio investimento (quasi 5 miliardi) per asili nido e altri supporti alla genitorialità, ma difficilmente basterà.
“Gli effetti delle nascite sul mercato del lavoro – spiega Rosina – li vedremo fra vent’anni. Anche se rimontiamo la media europea da 400 a 500 mila nascite, i futuri ventenni saranno meno degli attuali che già sono il numero più basso di sempre, 580 mila. L’aumento delle nascite non basta, deve combinarsi con flussi migratori consistenti”.
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Fonte: Repubblica – Affari & Finanza