Intervista a Luca Formentini, vicepresidente del Consorzio di Tutela del Lugana DOC, sulla visione olistica della sostenibilità, un approccio che tiene in considerazione l’interazione tra le componenti e l’interezza del sistema
La sostenibilità è un iter ed un processo strutturale, la sua esperienza è emblematica da questo punto di vista. Quali sono i principali cardini che le hanno permesso di sviluppare un percorso così lungo e fruttuoso?
Perchè la sostenibilità possa diventare un processo deve prima essere un pensiero e, affinchè questo pensiero sia in grado di generare un processo efficace è necessario che sia il più possibile personale. Quale impronta lascia il nostro lavoro produttivo nell’ambiente?
Quale è il differenziale tra utilizzo di risorse e generazione di prodotto: input necessario per produrre il nostro output?
Il prodotto finito non nasce soltanto da materie prime ma dall’ambiente, da risorse energetiche e umane; queste ultime misurabili in tempo, impegno professionale e carico emotivo. La sostenibilità è l’insieme di questi aspetti, a cui può darsi in futuro se ne aggiungano altri che oggi non vediamo ancora.
Ogni azienda dovrebbe modulare queste tematiche in base alla propria identità, composta fondamentalmente dal contesto geografico e dall’insieme di intenzione e sensibilità.
Credo che il potenziale qualitativo di un prodotto – dove il termine qualità si estende ben al di là dell’aspetto organolettico – sia direttamente proporzionale alla cura posta verso il contesto da cui nasce. E, trattandosi di un prodotto alimentare, penso che questa attenzione debba esprimersi prima di tutto attraverso la protezione della natura, del suo equilibrio e della sua bellezza composta da terra, aria, acqua e vita, animale e umana.
Nel percorso di sostenibilità, bisogna tenere ben presente l’aspetto umano nel modo in cui si relaziona con la qualità, la bellezza, il territorio e l’ambiente in cui nasce un prodotto.
È diffusa l’idea che la sostenibilità sia appannaggio delle grandi aziende vinicole strutturate, mentre per le piccole aziende sembra costituire un onere economico insormontabile. La sua realtà aziendale dimostra che questo presupposto è infondato. Come si può scalfire questa credenza errata?
L’interesse verso la sostenibilità è alimentato da una consapevolezza di responsabilità o dall’interesse verso l’ottenimento di una certificazione?
Dal punto di vista pratico le scelte che possono rapidamente migliorare la sostenibilità possono essere più rapidamente adottate da aziende di dimensioni contenute, dove il percorso decisionale è più breve.
Se invece si guarda alla sostenibilità solo al fine della certificazione allora è diverso, servono risorse economiche e strutturali, oltre che amministrative.
Pensare di fare sostenibilità al solo fine di poterla comunicare non credo sia un atteggiamento coerente e – per così dire – sostenibile.
Quando si parla di biodiversità ci si riferisce ad una varietà che include non solo gli esseri viventi, ma fa riferimento anche all’interazione tra questi e l’ambiente fisico (suolo, rocce, acqua e aria, fattori climatici). Il 15% della superficie della sua azienda è dedicata alla biodiversità, cosa significa per lei questo aspetto?
La biodiversità è essenziale per la vita della fauna autoctona e l’equilibrio della flora. Oltre alla cantina, nel podere abbiamo una antica cascina con il nostro ristorante ed un ancora più antico piccolo borgo nel quale si trovano gli appartamenti.
Ad intercalare questi tre punti – lungo un percorso di 870 passi – troviamo quasi tre ettari di bosco e tartufaia, circa due ettari di prati e parchi, un oliveto di circa 400 piante e due zone completamente selvatiche.
La biodiversità è la cartina di tornasole della concreta attenzione dell’azienda nei confronti dell’ambiente.
L’approccio olistico alla sostenibilità è un tratto caratterizzante della sua esperienza che va ben al di là degli aspetti puramente produttivi. Come si può concretizzare e trasmettere questa visione?
È necessario dedicare uno sguardo esteso a tutte le conseguenze prodotte dal processo produttivo e distributivo e, soprattutto, tenersi in una condizione di costante ascolto per capire quanto può essere messo in atto per una migliore compatibilità. Per l’impronta carbonica è fondamentale considerare che l’impatto più importante è prodotto dal peso del vetro della bottiglia, di seguito arrivano innumerevoli altri elementi.
Credo però che questo sia il primo aspetto su cui operare. Particolarmente complessa è la gestione dell’impronta chimica, che spesso si pensa di risolvere con la conduzione biologica quando invece è necessaria una attenta analisi della situazione specifica, ormai è chiaro quanto sia pericoloso e nocivo l’utilizzo di rame per contenere i trattamenti sistemici.
Anche in questo caso ogni realtà produttiva deve cercare la propria soluzione migliore, non credo che possa esistere un modello assoluto e costante nel tempo.
L’impronta idrica: purtroppo sempre più spesso è necessario poter intervenire con l’irrigazione, gli impianti a goccia permettono una minima dispersione di acqua, oltre che una efficacia notevolmente maggiore unita a nessun effetto collaterale dal punto di vista vegetativo.
Utilizzare le risorse finchè sono in grado di cedere utilità: lo “zero waste”. Non ci si deve vergognare se in cantina ci sono ancora vecchie vasche di acciaio o di cemento quando sono ancora sicure e sane per la loro funzione. In molti casi è meglio prendersi cura di ciò che si possiede facendo manutenzione per conservare efficienza piuttosto che rottamare e acquistare attrezzature nuove.
Fonte: Wine Meridian